“Conosci te stesso”
“La psicoanalisi non è una terapia, ma una conoscenza di sé.
Che poi conoscenza di sé sia anche un modo di prendersi cura di sé e quindi di “curarsi”
questo lo sapevano anche gli antichi filosofi greci e prima di loro l’oracolo di Delfi
che a tutti i visitatori dava sempre e comunque
quel messaggio che la tradizione ha condensato in tre parole:
‘conosci te stesso’” (Galimberti).
“Per riuscire efficace sii quello che sei realmente”, è l’unica verità alla quale, secondo Jung, deve tener fede il terapeuta. Ma essere ciò che realmente si è rappresenta un punto di arrivo, e mai definitivo, per l’analista che porta su di sé la responsabilità verso se stesso e verso la persona che ha di fronte.
In genere il paziente intraprende il cammino psicoteapeutico per risolvere un problema, per essere guarito, ma la guarigione non è l’unica risposta alla sua domanda.
La risposta è scritta sul pronao del tempio di Apollo a Delfi, il tempio in cui l’oracolo dava i suoi responsi: Conosci te stesso.
Anche Jung scrive che “La psicologia è, nella sua concezione più profonda, conoscenza di sé”. Conoscere se stessi vuol dire saper ascoltare le voci, le immagini, le persone che sono dentro di noi. La frase di Jung secondo cui l’analista deve essere ciò che realmente è, quindi, può essere interpretata come un’esortazione ad ascoltare le proprie immagini psichiche, che sono l’unica realtà a nostra disposizione, poiché è attraverso i loro occhi che noi vediamo ciò che ci circonda.
Tutto ciò potrebbe suscitare un po’ di timore in chi per la prima volta si avvicina all’analisi poiché è proprio il mondo interno, che ogni notte visitiamo nei nostri sogni, a fare tanta paura, che fa svegliare sudati dopo aver fatto un incubo, che cerca di esistere attraverso sintomi, atteggiamenti vissuti come inadeguati rispetto ad un modello di perfezione inarrivabile! Per questo chi si avvicina alla terapia merita grande rispetto poiché non lo fa, in genere, a cuor leggero ma si prende del tempo per elaborare la possibilità di un percorso. Anche se la stessa riflessione può avvenire in condivisione con il terapeuta.
L’analisi, infatti, non è un terremoto, che scardina tutte le porte dell’anima senza rispettare i tempi dell’inconscio o le certezze di una vita. È essenziale che il processo trasformativo avvenga nel rispetto dei tempi dell’Anima.
È un percorso privilegiato che accompagna un periodo della vita, in cui non si è soli in quello che Jung chiamava processo di individuazione, in cui analista e paziente condividono momenti di trasformazione che mettono in gioco entrambi. Jung ritiene sia fondamentale che, nel rapporto con il paziente, il terapeuta si metta in gioco personalmente e partecipi alle sue sofferenze in uno scambio dialettico e creativo, nell’ambito del quale due personalità, come due diverse sostanze chimiche, si incontrano e formano un legame che può trasformare entrambe. Questo può verificarsi soltanto se ciò che accade al paziente viene vissuto interiormente anche dal terapeuta, poiché egli può esercitare la sua influenza sul paziente soltanto se il paziente lo influenza a sua volta. Influenzare significa essere influenzati.
Ed essere influenzati vuol dire ascoltare il paziente e comprendere il suo pathos, che etimologicamente significa “accadimento”, “esperienze”, “esser mossi e la capacità di esser mossi”. Mentre con il termine pathe si indicano i movimenti dell’anima che, secondo Aristotele, rivelano una capacità di mutamento, oppure l’effettivo verificarsi di mutamenti qualitativi, che a volte sono dolorosi e vengono percepiti come afflizioni. Ma, come ci ricorda Hillman, l’anima si esprime attraverso le afflizioni, le patologizzazioni, poiché è tramite la depressione che si può entrare nelle sue profondità.
“Bisogna avere il caos dentro di se’ per partorire una stella danzante” Nietzsche.