Il meraviglioso mago di Oz, di L.F.Baum Alessandra Corridore
“Il fare anima comporta la distruzione di anima” (Hillman)
“Il più grande atto di creazione consiste nel creare noi stessi” (Carotenuto)
Il meraviglioso mago di Oz, opera scritta e pubblicata nel 1900 da L. Frank Baum, per decenni è rimasta nell’ombra, probabilmente perché non rispondeva ai rigori moralistici e convenzionali dell’epoca. L’autore, infatti, adotta, in maniera “rigorosa”, la formula magica della fantasia, ma una fantasia fatta di poesia e, soprattutto, nata per nutrire se stessa. Egli stesso, nell’introduzione, propone un genere letterario nuovo, che non rispetti i canoni né della fiaba né della favola, che non derivi dalla tradizione popolare e che, soprattutto, non voglia insegnare una morale. “È giunta l’ora – scrive – di una serie di ‘racconti meravigliosi’ più nuovi, con l’eliminazione di genietti, nani e fate stereotipati, nonché degli episodi terribili e sanguinosi inventati dagli autori per indicare in ogni storia una paurosa morale” (Baum, 1900, p. 5). Si tratta, quindi, di un prodotto della fantasia dell’autore libero da intenti educativi e moralistici, ed è proprio per questo che può essere letto come un sogno, o una serie di sogni, che delineano quello che Jung definì processo di individuazione. I personaggi del racconto, dal punto di vista psichico, possono rappresentare personificazioni di immagini psichiche che nel corso del processo, lo vedremo, si trasformano e determinano la trasformazione dell’intera personalità.
Il taglio che viene dato al lavoro si avvale dell’interpretazione di Donald Kalsched nell’opera Il mondo interiore del trauma, nella quale l’autore mette in luce quelle che sono le dinamiche interne che si costellano in una psiche che ha vissuto l’esperienza di un trauma precoce.
La storia inizia con un fugace accenno all’esperienza traumatica: la perdita dei genitori da parte di Dorothy, la protagonista. Dorothy è una bambina che, secondo l’impostazione scelta, potrebbe rappresentare l’io infantile traumatizzato. Utilizzando la terminologia di Winnicott, Kalsched definisce questa parte psichica come Vero Sé che, in pazienti traumatizzati, viene scisso dal resto della personalità affinché venga protetto dalla possibilità di trovarsi ad affrontare di nuovo l’esperienza traumatica.
Egli ritiene che, se l’esperienza traumatica si verifica in età molto precoce, l’io non ancora maturo non sia in grado di mettere in atto le consuete difese, per cui la psiche sarebbe costretta a ricorrere a difese “primitive” e “dissociative”. Un trauma quindi, se colpisce la psiche in fase evolutiva, potrebbe determinare una frammentazione della coscienza in parti, che Jung chiamava complessi autonomi, che si organizzano secondo modelli arcaici, archetipici, in genere in diadi o sizigie di esseri ‘personizzati’. Di solito la parte scissa regredisce ad un periodo infantile, mentre l’altra parte progredisce troppo velocemente e si adatta precocemente al mondo esterno, spesso costellandosi come un Falso Sé (Winnicott). Quando le altre difese falliscono le difese archetipiche intervengono a difendere il Sé, il nocciolo interno della personalità, anche fino al sacrificio ultimo di questo, il suicidio (cfr. Kalsched, 1996, pp. 28-9).
La parte progredita della personalità, dunque, si prende cura della parte regredita fino ad un punto in cui il sistema archetipico autocurativo della psiche impazzisce. “Come il sistema immunitario del corpo, il sistema di autocura espleta le sue funzioni attaccando energicamente ciò che ritiene ‘estraneo’ o ‘pericoloso’. Le parti vulnerabili dell’esperienza del sé nella realtà vengono viste proprio come ‘elementi pericolosi’ e vengono attaccate di conseguenza. Questi attacchi servono a scardinare la speranza nelle relazioni oggettuali vere e a spingere il paziente sempre più dentro la fantasia; e proprio come il sistema immunitario può essere tratto in inganno e attaccare quella stessa vita che cerca di proteggere (malattie autoimmuni), così il sistema di autocura può diventare un ‘sistema autodistruttivo’ che trasforma il mondo interiore in un incubo di persecuzione e autoaggressione” (ibidem, p. 58).
Nel nostro racconto l’isolamento della parte più genuina della personalità, il Vero Sé, viene interrotto proprio nel momento in cui il pericolo di soccombere si fa più reale e prende l’aspetto di un ciclone. A quel punto le possibilità sono due: o la morte o la vita. Dorothy trova in sé la forza di andare verso la vita ed inizia il suo percorso di recupero delle sue parti dissociate per poi affrontare, con esse, il Falso Sé (il Grande e Terribile Mago di Oz) e le prove alle quali la sottopone.
Il ciclone – il trauma
“Dorothy abitava in mezzo alle grandi praterie del Kansas, con lo Zio Henry, che faceva il fattore, e la Zia Em, che faceva la moglie del fattore … Quando Dorothy si fermava sulla soglia di casa e si guardava intorno da ogni lato, non vedeva altro che la grande prateria grigia … Il sole aveva arrostito la terra rimossa dall’aratro fino a farne una massa grigia, percorsa da piccole spaccature. Nemmeno l’erba era verde, perché il sole le aveva bruciato le punte dei lunghi fili fino a renderle dello stesso color grigio che si vedeva dappertutto. Una volta la casa era stata verniciata, ma poi il sole aveva disseccato il colore, e la pioggia lo aveva lavato, e ora anche la casa era smorta e grigia come tutto il resto…. Nei primi tempi in cui Dorothy, che era orfana, era venuta a stare con lei, la Zia Em era talmente stupita del riso della bambina da lanciare un grido premendosi la mano sul cuore ogni volta che quella vocetta allegra le arrivava alle orecchie… Lo Zio Henry non rideva mai. Lavorava sodo da mattina a sera e non sapeva cosa fosse l’allegria. Anche lui era grigio… Era Toto a far ridere Dorothy, e a impedirle di diventare grigia come tutto il resto. Toto non era grigio; era un canino nero dal pelo lungo e serico e dagli occhietti neri che scintillavano giulivi sui due lati di un buffo nasetto. Toto giocava tutto il giorno, e Dorothy giocava con lui, e lo amava teneramente” (Baum, 1900, pp. 7-8).
In una psiche arsa dal sole, che appare irrimediabilmente grigia ed inaridita, si costella l’immagine di una bambina, Dorothy, e del suo cane Toto. Kalsched scrive che nei sogni spesso la parte regredita della personalità viene rappresentata dall’immagine di un sé bambino o animale vulnerabile, giovane, innocente, spesso femminile; “questo residuo ‘innocente’ dell’intero sé sembra rappresentare il nocciolo dell’indistruttibile spirito individuale della persona – quello che gli antichi egizi chiamavano ‘l’anima Ba’” (Kalsched, 1996, pp. 28-29).
Nella nostra storia abbiamo un punto di partenza caratterizzato da una realtà psichica del colore degl’Inferi e di Ade stesso, il Signore dei morti. L’atmosfera grigia, di morte, può essere messa in relazione con un possibile trauma avvenuto in una psiche in fase evolutiva, ad esempio la perdita dei genitori. Dorothy è orfana e vive con gli zii. Gli zii, in chiave psicologica, possono rappresentare la parte del Sé che progredisce adattandosi al mondo esterno proteggendo la parte regredita. Il trauma, però, si ripropone, come accade continuamente nella vita. “É come se il mondo persecutorio interiore trovasse in qualche modo il suo specchio esterno in ripetute ‘re-citazioni’ di autosconfitta – quasi come se la persona fosse posseduta da una potenza diabolica o perseguitata da un fato maligno” (ibidem, p. 32) a minacciare la stabilità psichica: il ciclone. “Presto Dorothy … corri in cantina!” (Baum, 1900, p. 9), grida lo Zio Henry, per proteggerla dalla catastrofe imminente, ma questa volta gli zii non sono più con Dorothy.
Probabilmente si è dischiuso uno spiraglio, si è aperta una breccia nelle sue difese egoiche consuete, direbbe Kalsched, attraverso la quale lo spirito di morte, che nel nostro caso non ha sembianze umane ma di un ciclone, è riuscito a penetrare (cfr. Kalsched, 1996, p. 45). A nulla serve la cantina costruita dagli zii, senza la loro protezione!
Dorothy, mentre la casa viene trasportata dal ciclone ed urla il vento, si sente molto sola, finché non si addormenta. Qui si potrebbe citare quella che Kohut definisce “angoscia di disintegrazione”, la paura della dissoluzione dell’intera personalità di fronte al ripresentarsi del vissuto traumatico. Il ciclone può essere inteso come il lato oscuro del Sé, emissario dell’essere “diabolico” che continua a provocare angoscia, paura, tensione in una personalità traumatizzata. Un movimento diabolico verso la disgregazione, da dia ballein, che etimologicamente vuol dire ‘tirare lontano’, oppostoal simbolico che, dal sym-ballein, significa ‘tirare insieme’ (cfr. ibidem, 47). Nel nostro caso il movimento del ciclone non riuscirà a ‘difendere’ Dorothy dal suo destino individuativo.
Il grigio, le persone e il paesaggio circostante grigi, probabilmente avevano la funzione, nell’ambito di quello che Kalsched definisce il sistema archetipico autocurativo della psiche, di mediazione interno-esterno impedendo alla bambina, il vero Sé, di vivere in maniera creativa la sua esistenza. La creatività, infatti, può essere rischiosa in un mondo percepito come pericoloso. Il rischio è che una cosa così preziosa, come la propria vera personalità, ancora in stato infantile (il Sé arcaico infantile di Kohut), quindi vulnerabile, indifesa, possa ancora una volta non trovare rispecchiamento o essere ferita. Il grigio, l’omologazione come difesa, possono rappresentare un efficiente scudo protettivo rispetto all’annientamento della personalità al quale la riattualizzazione di un evento traumatico potrebbe condurre.
Eppure Dorothy si trova a confrontarsi con il ciclone-trauma, e la sua potenza acquista un ruolo distruttivo, produce una nuova perdita e nuova solitudine, ma allo stesso tempo apre la via alla trasformazione.
Le quattro streghe – si rompe un equilibrio
Nel secondo capitolo inizia la vera storia di Dorothy, del vero Sé di cui parla Winnicott, dell’io in trasformazione.
Dorothy, che è ancora dentro la sua casa insieme al suo cane si trova ad essere trasportata dal ciclone fino a ritrovarsi nello sconosciuto paese di Munchkin, uno dei quattro regni governati dalle quattro streghe dell’Est e dell’Ovest, le cattive, del Nord e del Sud, le buone, e tutt’intorno circondati dal deserto. La bambina atterra con tutta la sua casa provocando la morte della malvagia Strega dell’Est, sulla quale la casa si schianta, che “Da molti anni teneva in schiavitù i Munchkin, giorno e notte. Ora sono tutti liberi” (Baum, 1900, p. 15), le spiega la strega del Nord, che l’accoglie in questo mondo sconosciuto assieme a due abitanti del luogo. Un paese molto diverso dal Kansas; “una campagna di bellezza straordinaria. Tutto intorno c’erano bellissime chiazze di verde, con maestosi alberi carichi di frutta succulenta e matura. Dappertutto c’erano aiuole di fiori sgargianti, e uccelli dalle piume rare e colorite cantavano e svolazzavano sugli alberi e sui cespugli. Poco lontano scorreva un ruscelletto che rimbalzava lucente tra due sponde verdi, sussurrando con una voce molto piacevole per una bambina che aveva passato tanto tempo nelle aride e grigie praterie” (ibidem, p. 13).
Probabilmente l’io bambino del racconto si trova per la prima volta a vedere, toccare, ascoltare, assaporare una realtà psichica fino ad allora sconosciuta, ancora inesplorata, piena di colori, voci, animali rari, frutti succulenti. Una realtà psichica rimasta ‘incontaminata’, anche se soggiogata, resa schiava dalla malvagia strega dell’Est.
Dorothy rimane scioccata nel trovarsi al cospetto di una strega: le avevano detto che le streghe non esistono! Probabilmente perché non c’è posto, in una personalità ben adattata al mondo esterno (falso Sé), per la fantasia. La strega del Nord è molto chiara in questo senso, perché dice alla bambina: “Nei paesi civili non credo rimangano più streghe, né maghi, fattucchiere o fate. Ma capisci, il Paese di Oz non è mai stato civilizzato, perché siamo tagliati fuori dal resto del mondo. Per questo abbiamo ancora streghe e maghi tra noi” (ibidem, p. 16).
Kalsched, parlando del trauma precoce, osservato dal punto di vista della dinamica psichica, afferma che l’io bambino, non avendo ancora capacità di simbolizzazione e non essendo le difese dell’io ancora attive, se viene travolto da una sofferenza psichica intollerabile attiva delle difese arcaiche dissociative. A questo punto si verifica una frammentazione della coscienza in nuclei complessuali autonomi che si organizzano secondo modelli archetipici, e si manifestano sotto forma di personificazioni, in genere diadi o sizigie (cfr. Kalsched, 1996, p. 28). Nella nostra storia sembrano costellarsi già alcune diadi, a cominciare dal tipo di ambientazione, la prima grigia e spenta e la seconda piena di colore e vivacità, alle quali si può associare l’altra diade: mondo civilizzato – mondo incontaminato. I due mondi, separati dal deserto, quindi completamente scissi, sono uno conosciuto ed ordinario, l’altro magico, meraviglioso. Anche le streghe, due buone e due cattive, collocate topologicamente le prime in senso verticale (Nord-Sud), le seconde in senso orizzontale (Est-Ovest), inizialmente si esprimono in diadi. Esse formano però anche una quaternità, ma lo vedremo in seguito.
Il sistema di “autocura”, attraverso le diadi costellate, rappresenta l’involucro protettivo, salvifico dell’io traumatizzato, che tenta di mantenere lo status quo. Ma con l’uccisione della strega dell’Est si rompe un equilibrio, si apre un nuovo momento in cui Dorothy in prima persona, per la prima volta sola, intraprende la strada verso la trasformazione. Lei che è una bambinetta qualunque, come dice a chi le vuole dare l’appellativo di strega o maga. Sembra però che la strega dell’Est, il cui cadavere è scomparso sotto la casa, le abbia lasciato “in eredità” le sue scarpe d’argento, e la strega buona del Nord le rivela che contengono un incantesimo a lei oscuro. La morte della strega, quindi, dà il via al processo di trasformazione che condurrà Dorothy all’elaborazione ed allo scioglimento (lisis) dei vissuti traumatici infantili.
Nonostante ciò, per ora la bambina sembra concentrata soltanto sul suo desiderio di tornare nel Kansas, forse di ritrovare ancora una volta la protezione, seppur grigia ed instabile, dei suoi zii, grigi e tristi. Lo stesso Kalsched afferma che i pazienti traumatizzati giunti in terapia da lui perché spinti da un bisogno, in realtà non volevano crescere e cambiare, soddisfacendo quindi quel bisogno; “una parte di loro voleva cambiare e una parte più forte resisteva a quel cambiamento. Erano divisi in se stessi” (Kalsched, 1996, p. 40).
La strega del Nord indica all’io la strada verso l’individuazione, la strada di mattoni gialli che la condurrà alla città di Smeraldo dove un grande Mago buono, il Mago di Oz, potrebbe aiutarla ad esaudire il suo desiderio. La bambina riceve un dono anche dalla strega del Nord che le dice: “ti darò il mio bacio, e nessuno oserà fare del male a una persona che ha ricevuto il bacio della Strega del Nord” (Baum, 1900, p. 19).
Lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta, il Leone – le energie dissociate
Inizia il viaggio di Dorothy che, lungo la strada di mattoni gialli che la condurrà alla città di Smeraldo, incontra tre personaggi veramente singolari: lo Spaventapasseri, l’Uomo di Latta e il Leone. La particolarità di questi tre personaggi o, osservati dal punto di vista psichico, personificazioni di parti psichiche, è che ognuno di essi sente fortemente dentro di sé la mancanza di qualcosa, un bisogno. Lo Spaventapasseri vorrebbe avere un cervello, l’Uomo di Latta un cuore, che un giorno le aveva tolto la terribile strega dell’Est, il Leone vigliacco, che sarebbe dovuto essere il re della foresta, avrebbe voluto possedere il coraggio che contraddistingue la sua specie. Tutti e tre decidono di seguire Dorothy e di presentarsi al cospetto di Oz, per chiedergli di esaudire i loro desideri.
Dorothy, l’io, entra quindi in contatto con alcune parti della sua psiche frammentata, che potrebbero essere definite parti dissociate del vero Sé, le quali manifestano i loro bisogni e allo stesso tempo, lo vedremo, le loro potenzialità.
Kalsched parla di persone con una sensibilità non comune che, dopo un’esperienza traumatica vissuta nell’infanzia, hanno scisso da sé la parte legata al sentimento, al cuore dunque, relegandola nel loro mondo interiore, per evitare ulteriori sofferenze. È come un corto circuito che si verifica nella psiche, che blocca entrambe le fonti di energia, quelle che provengono dal mondo esterno e quelle interne, inconsce. A questo punto il soggetto “deve essere difeso dagli stimoli pericolosi provenienti dal mondo esterno, ma anche dai bisogni e desideri che sorgono dalla sua interiorità profonda” (Kalsched, 1996, p. 57). L’esperienza, quindi, viene privata di significato, e pensieri ed immagini distaccati dall’emozione in modo che non vi siano parole per i sentimenti, condizione che McDougall definisce con il termine di alessitimia (cfr. idem), che Kalsched chiama anche schizoide (cfr. ibidem, p. 39).
Il trauma può anche aver bloccato il pensiero (il cervello), che può rappresentare un rischio per un soggetto che ha subito nell’infanzia, come direbbe Kohut, una frustrazione non ottimale e che porta dentro di sé le tracce di una ferita narcisistica. “Ti senti tanto a disagio quando sai di essere scemo” (Baum, 1900, p. 32), dice lo Spaventapasseri. Questa frase evidenzia il senso di inadeguatezza che può costellarsi in un psiche traumatizzata, una psiche che, di conseguenza, si porrà nei confronti del mondo con il timore, con la paura (il Leone) di essere ferita di nuovo. Kalsched cita il lavoro di diversi autori dal quale si desume come la totalità dell’esperienza sia un insieme di molti fattori, e come non sia facile che si determini una esperienza realmente integrata. In particolare cita le ricerche di Braun il quale individua quattro aspetti dell’esperienza nei quali può verificarsi la dissociazione: comportamento, emozione, sensazione, conoscenza (modello BASK, behavior, affect, sensation, knowledge). “Nel disturbo dissociativo, ciascuno di questi aspetti si può scindere al suo interno, oppure possono venire recisi i consueti legami interni ed esterni tra di essi” (Kalsched, 1996, p. 78). Probabilmente nel nostro caso si tratta sia della scissione interna, che non permette ancora ai personaggi di entrare in contatto con l’affettività e con la capacità conoscitiva, sia di quella esterna, che a lungo ha dissociato i diversi aspetti della personalità.
Si può supporre, quindi, come appare chiaramente per quanto riguarda l’Uomo di Latta, che un potere superiore (la Strega dell’Est) abbia irretito la capacità di provare sentimenti (il cuore), di pensare (il cervello) e di affrontare la vita (il coraggio) per proteggere la personalità dalla possibilità di rivivere l’esperienza traumatica, funzionando da “malattia autoimmune” che, non riconoscendo più il nemico, blocca le potenzialità della psiche stessa. I legami fra gli elementi BASK dell’esperienza sembra siano stati aggrediti da difese arcaiche (cfr. ibidem, p. 79).
Tramite i tre personaggi incontrati dall’io, però, si costella la meta del processo di individuazione. L’io entra in contatto con le immagini con cui verrà a congiungersi quando prenderà coscienza delle loro potenzialità. Le energie della psiche tendono, mostrando le loro mancanze, i loro bisogni, al recupero di potenzialità scisse e depotenziate. La strada che conduce alla Città di Smeraldo rappresenterà solo il primo momento del processo di individuazione, in cui i personaggi dimostreranno, pur non essendone ancora consapevoli, di possedere già le caratteristiche delle quali si sentono mancanti e che vorrebbero ottenere dal Mago di Oz.
Il Mago si presenta separatamente (ancora un tentativo di separare) ai quattro personaggi con sembianze diverse: a Dorothy si mostra come “un’enorme testa, senza corpo che la sostenesse, o braccia o gambe di sorta. Su questa testa non c’erano capelli, ma c’erano occhi, naso e bocca; ed era più grande della testa del più colossale dei giganti” (Baum, 1900, p. 83). Lo Spaventapasseri fu accolto da “una bellissima dama. Costei era vestita di veli di seta verde e portava sui fluenti capelli verdi una corona di gemme. Alle spalle aveva attaccate due ali, dal colore smagliante e tanto leggere che palpitavano al minimo soffio d’aria” (ibidem, p. 86). Per il Boscaiolo di Latta Oz aveva assunto le sembianze di una “terribilissima Belva … grossa quasi come un elefante” (ibidem, p. 87), mentre per il Leone era una “Palla di Fuoco, talmente furiosa e lucente che quasi non riusciva a fissarla” (ibidem, p. 89).
Per Kalsched la parte progredita della personalità nei sogni, e quindi nell’immaginario collettivo, è rappresentata da una potente grande figura, benevola e malevola, che protegge o perseguita un’altra figura vulnerabile. Una figura ‘tutrice’ demoniaca e terrificante per l’io (cfr. Kalsched, 1996, p. 29). Il Mago infatti esordisce con ognuno dei protagonisti della storia così: “Io sono Oz, il Grande e Terribile” (Kaum, 1900, p. 83), e Dorothy gli risponde prontamente: “Io sono Dorothy, la Piccola e Mite” (idem). Ancora una diade, rappresentata dal Vero Sé e dal Falso Sé, al quale il primo, dopo aver recuperato energia dall’incontro con le parti dissociate del Sé, i suoi tre amici, ancora chiede di poter ritornare alla sua vita di un tempo (la vita grigia del Kansas).
In questo primo momento il Mago di Oz si presenta nella sua veste divina e demoniaca, mitizzata. Si pone come figura salvifica ed inarrivabile. Successivamente emergeranno altre ambivalenze legate a questa immagine personificata.
La malvagia Strega dell’Ovest – la prova
”Tutti debbono pagare per qualunque cosa ricevono … devi fare qualcosa per me … Uccidi la malvagia Strega dell’Ovest” (ibidem, p. 84), disse il grande Mago di Oz a Dorothy. Proprio come Afrodite nel mito di Apuleio, Amore e Psiche, impose a Psiche le sue prove, con la convinzione di condurla a morte certa (l’ultima prova consisteva proprio nel viaggio negl’Inferi), così il Mago spinge i quattro personaggi del nostro racconto nelle grinfie della terribile, malvagia e feroce, Strega dell’Ovest.
La Strega aveva reso schiavi tutti gli abitanti del Regno dell’Ovest, e tutti coloro che avevano provato ad entrarvi, ma questa volta ordina ai suoi lupi, ai suoi corvi, alle sue api e al povero popolo di Winkie, i suoi schiavi, di fare a pezzettini gli stranieri. Forse il persecutore psichico, in questo caso impersonato dalla Strega dell’Ovest, si è reso conto che non è più possibile tenere sotto schiavitù, in isolamento una parte della psiche, ora che questa sta trovando forza ed energia al suo interno, per cui la vuole annientare. Si tratta dell’annientamento dell’io, o del Vero Sé, che può portare al suicidio o alla follia.
Kalsched, narrando il caso La signora Y e l’uomo col fucile, mostra come proprio nel momento in cui sembra che un processo analitico si stia evolvendo, in un paziente traumatizzato, possa verificarsi una improvvisa regressione. La signora Y, una personalità definita dall’autore “alessitimica”, tramite la commozione controtransferale dell’analista aveva avuto un contatto con le sue emozioni dissociate, e con la vergogna nei confronti delle sue parti bisognose, quindi deboli e “cattive”. “C’era un prezzo da pagare per questo” (Kalsched, 1996, p. 58) però, dice Kalsched, ed infatti nei sogni compaiono immagini psichiche che rappresentano “un campo di battaglia su cui le potenze titaniche della dissociazione e dell’integrazione si contendono lo spirito individuale traumatizzato” (ibidem, 61). La psiche traumatizzata non riesce a tollerare una riattualizzazione della situazione traumatica originaria attraverso l’esposizione della parte vulnerabile del sé, che è vissuta come umiliante e come motivo di vergogna. Il prezzo da pagare, quindi, è la “recisione dell’influsso potenzialmente ‘correttivo’ della realtà”(ibidem, p. 58).
Nel racconto di Baum, ora che l’io inizia ad entrare in contatto con le sue emozioni e le sue facoltà mentali, la sua “umanità”, portandola a coscienza, è costretto, come fu per Psiche nel mito di Apuleio, a discendere negl’Inferi. Anche qui abbiamo un prezzo da pagare ed un campo di battaglia nel quale ci si confronta direttamente con le parti della psiche più arcaiche e con la morte. Il prezzo da pagare è la vita stessa, una vita vissuta fino ad allora in una campana di vetro, protetti dalla vera vita.
La Strega dell’Ovest dà fondo a tutte le sue risorse, compreso l’ultimo desiderio concessole indossando una Cuffia d’Oro, che le dava la possibilità di chiamare a sé e di avere esaudito qualsiasi desiderio dalle Scimmie Alate. Riesce però soltanto a catturare, non ad uccidere la bambina, protetta dal bacio della Strega del Nord. Il Boscaiolo e lo Spaventapasseri, invece, vengono l’uno lasciato cadere dall’alto sulle rocce appuntite, l’altro svuotato della paglia ed i suoi abiti gettati su un albero alto. Il leone, infine, la Strega aveva chiesto di risparmiarlo poiché, opportunamente provvisto di finimenti, poteva essere utilizzato come animale da lavoro (cfr. Baum, 1900, p. 99).
Ma, come dicono le scimmie alla Strega, “Non osiamo nuocere a questa bambina … perché è protetta dal Potere del Bene, che è più grande del Potere del Male” (ibidem, p. 100). E la Strega si rende presto conto che, oltre al bacio della Strega del Nord, che la protegge dalla morte, Dorothy possiede anche le preziosissime scarpe d’argento della Strega del Sud. La bambina, però, ignora il potere di quelle scarpe, e i timori della Strega svaniscono quando se ne rende conto. Pensa: “Posso ancora farla mia schiava, perché non sa come usare il suo potere” (ibidem, p. 101). L’io quindi è in possesso di un potere, il Potere del Bene, del quale non è consapevole, per cui si lascia ancora una volta soggiogare dal Potere del Male che la tiene in schiavitù.
Tuttavia la Strega, sentendosi minacciata, prova a portar via a Dorothy le scarpette argentate. Riesce con un incantesimo ad appropriarsi di una di queste, ma la bambina, seccata, le rovescia un secchio di acqua addosso. “Istantaneamente quella donna malvagia emise un sonoro grido di paura e poi, sotto gli occhi meravigliati di Dorothy, cominciò a restringersi e a scomparire … Mi dispiace davvero’ – disse Dorothy” (ibidem, p. 104).
Dorothy, l’io, quindi riesce a portare a termine la prova uccidendo l’ultima Strega malvagia, ed ancora una volta prende con sé un trofeo, la Cuffia d’Oro, attingendo così anche dalla sua energia.
Lo smascheramento e il riconoscimento delle energie
Solve et coagula, recita un noto detto alchemico, ma anche Divide et coagula. Entrambi sembrano appropriati alle immagini che si sono venute a costellare nella nostra storia. Dopo la separazione dei quattro personaggi (divide) e la dissoluzione della strega dell’Ovest, dell’energia negativa del persecutore interno (solve), Dorothy, l’io, va alla ricerca delle energie positive dei suoi tre amici per ricongiungersi con esse (coagula). Il Boscaiolo di Latta viene recuperato e riparato dai fabbri del popolo dei Winkie, oramai liberato dalla tirannia della Strega dell’Ovest. Ed è questo il momento in cui si verifica un evento eccezionale per la psiche traumatizzata: il Boscaiolo piange, e trova in Dorothy, l’io, il suo rispecchiamento e la sua consolazione. Scrive Baum: “Quando (il Boscaiolo di Latta) entrò nella stanza di Dorothy a ringraziarla per averlo salvato, dalla felicità pianse lacrime di gioia, e la bambina dovette asciugargli con cura ogni lacrima dal viso con il grembiule per evitare che gli si arrugginissero le giunture. Allo stesso tempo le sue lacrime cadevano rapide e spesse per la gioia di ritrovare il vecchio amico…” (ibidem, p. 108). Sembra dunque che la possibilità di avere un cuore per provare sentimenti ed emozioni, ora che la Strega Malvagia si è liquefatta, si sia trasformata in realtà per il Boscaiolo e per la psiche scissa, che sta iniziando ad integrare i nuclei complessuali autonomi, dissociati. Ed è emblematico che la commozione coinvolga anche l’io, oramai non più scisso dalla sfera emotiva, anche se ancora non ve ne è consapevolezza.
Poi viene salvato anche lo Spaventapasseri che, insieme al Leone, liberato immediatamente da Dorothy una volta sconfitta la Strega, si ritrovano vincitori al cospetto del Mago di Oz, che prova a prendere tempo ancora una volta. Non avrebbe mai immaginato che sarebbero tornati sani e salvi, e che sarebbero riusciti ad uccidere la malvagia strega dell’Ovest!
Il Leone, allora, acquistato ormai coraggio, “pensò che non ci sarebbe stato nulla da perdere a spaventare il Mago, e perciò emise un grosso, sonoro ruggito, che risultò talmente feroce e tremendo che Toto si allontanò da lui con un balzo, allarmato, andando a finire contro un paravento ritto in un angolo, … (che) piombò a terra con un tonfo, e tutti … videro in piedi, proprio dietro il riparo del paravento, un vecchiettino dal cranio calvo e dal viso coperto di rughe, e dall’espressione non meno spaventata della loro … Io sono Oz il Grande e Terribile – disse l’ometto, con voce tremante – Ma non mi colpire… Ti prego! (rivolgendosi al Boscaiolo) … Farò tutto quello che volete” (ibidem, p. 123).
Crolla così l’immagine Grande e Terribile. Il Falso Sé, il Grande Mago di Oz, quella presenza allo stesso tempo salvifica e soggiogante, che aveva permesso, nonostante l’esperienza traumatica, alla personalità di sopravvivere nel mondo, seppur tramite la scissione, viene ridimensionata nelle vesti di un vecchiettino dal cranio calvo e dal viso coperto di rughe. Anche il regno di Oz, la città di Smeraldo, è un bluff: ogni cosa appariva di color verde perché all’ingresso ogni visitatore, come del resto gli abitanti della città, veniva invitato ad indossare occhiali da sole con lenti di color verde. I quattro personaggi, però, ancora sembrano dipendere da lui. Pur chiamandolo Il Grande Imbroglione, si aspettano ancora che qualcuno dia loro cuore, cervello, coraggio, probabilmenteun Tu che possa permettergli di prendere coscienza delle proprie possibilità. Dorothy, dal canto suo, si aspetta ancora di ritornare nel Kansas, che a questo punto più che mai si costella come Sé, come telos, come meta del processo di individuazione che ora si è riattivato.
La figura del Mago di Oz è un’immagine ambigua, per cui forse non può essere letta come una realtà unica, soltanto alla luce dello smascheramento. Si presenta come un’essenza multiforme Grande e Terribile, come un demone che sembra avere le soluzione di ogni problema, ma che invia i nostri personaggi alla morte prima di esaudire i loro desideri. Kalsched lo avvicina all’archetipo del Briccone alchemico, Ermes-Mercurio che, cita Jung, “Come tutte le figure ambivalenti del Sé … era ambivalente, paradossale, fonte di guarigione come di distruzione … Ne è rappresentazione simbolica il suo bastone alato, il caduceo, con due serpenti attorcigliati in direzioni opposte, uno che porta il veleno, l’altro l’antidoto” (Kalsched, 1996, p. 80). È una divinità di soglia, un dio dello spazio transizionale, un Giano bifronte, ed infatti nel suo doppio aspetto, nel nostro racconto, rappresenta il passaggio da una natura sovrumana terribile, forse idealizzata, ad una natura più umana salvifica. Continua Kalsched: “Da un lato, è un assassino, amorale e malvagio, identificato spesso con potenti animali o demoni inferi … Ma è capace di un grande bene. Non è raro che agisca da psicopompo, intermediario fra gli dei e gli uomini, e spesso la sua natura diabolica è proprio quello che ci vuole per aiutare ad avviare un nuovo inizio” (ibidem, p. 81). Senza il Mago di Oz, infatti, Dorothy non avrebbe mai affrontato e sconfitto la Strega dell’Ovest.
Ed ora si costella nella sua limitatezza, di colui che ha preso coscienza del fatto che non è onnipotente, come pretendeva di mostrare al mondo. Può quindi rappresentare un aspetto di una personalità narcisistica che si è ridimensionato e che inizia a porsi in relazione con la coscienza.
Può richiamare, però, anche l’immagine del Vecchio Saggio, di cui parla Jung in Fenomenologia dello Spirito nella fiaba. Anche il vecchio, come il Briccone, è una figura ambigua che può essere associata al Mercurio alchemico. È la manifestazione dello Spirito, inteso come “l’essenza attiva, alata e mossa che vivifica, stimola, infiamma, eccita e ispira” (Jung, 1948, p. 204). Lo Spirito, scrive Jung, può presentarsi come mago, medico, sacerdote, maestro, professore, nonno, o persona comunque autorevole. Può personificarsi nell’immagine di un vecchio portatore di aiuto e consiglio e, per enantiodromia, allo stesso tempo, demone tentatore (cfr. ibidem, p. 209). E il vecchio, infatti, ha anche un aspetto malvagio, è rimedio e veleno, artefice di vita e di morte (cfr. ibidem, p. 219).
Il vecchio del racconto, ora che ha perduto tutti i suoi poteri ultraterreni, incarna realmente quell’essenza attiva spirituale di cui parlava Jung, diventa portatore di aiuto e consiglio per lo Spaventapasseri, per il Boscaiolo di Latta e per il Leone. Impersona il Tu che permette loro di esistere attraverso lo sguardo dell’altro. Mettendo degli spilli nella testa dello Spaventapasseri, infatti, lo rende consapevole del fatto di avere un cervello; allo stesso modo, inserisce nel corpo di latta del Boscaiolo un grazioso cuore fatto interamente di seta e pieno di segatura; e infonde coraggio nel Leone facendogli bere un liquido… naturalmente di colore verde! I personaggi del racconto in questo modo prendono coscienza delle energie acquisite, prima che il mago prenda il volo con un pallone aerostatico. Dorothy sarebbe dovuta andare con lui per raggiungere il Kansas, ma proprio al momento della partenza Toto, il suo cagnolino, scappa. Lei va per riprenderlo, ma ormai Oz era già volato via. Il compito di questa immagine così ambigua, al limite tra il divino e l’umano, probabilmente è terminato. Ora sarà l’io a dover trovare la strada di casa, ma non è più solo, ed ha dei validi compagni di viaggio.
Glinda, la Strega del Sud
Riacquistate le energie psichiche, l’io ora ha la consapevolezza di avere il cuore, l’intelligenza ed il coraggio necessari per intraprendere la via di casa, verso il Sé. Ma qual è la direzione? La sentinella della città di Smeraldo gli consiglia di incamminarsi verso Sud, nel regno dei Quadling, dove regna la Strega buona del Sud che potrebbe indicargli la strada di casa.
Il nuovo percorso li porta a confrontarsi ancora con delle resistenze e delle fragilità della psiche, personificate nelle immagini degli Alberi Guerrieri e del grazioso paese, delicato e fragile, di porcellana. Ed è proprio il Boscaiolo di Latta che, dopo aver riacquistato la capacità di provare emozioni, con la sua ascia recide i rami degli Alberi Guerrieri, i poliziotti della foresta, permettendo alle riacquistate energie di fluire. E non a caso, una volta attraversate le difese, si scoprono le fragilità della psiche: un grazioso paese fatto completamente di porcellana, con uomini ed animali di porcellana. “Dobbiamo fare molta attenzione qui – disse il Boscaiolo, col suo cuore gentile – potremmo procurare dei guai irreparabili a questo grazioso piccolo popolo” (baum, 1900, p. 152).
Il Leone, dal canto suo, dimostra il suo coraggio liberando un’altra foresta, dove gli alberi erano più grandi e più vecchi di quanto avesse mai visto, da un terribile, enorme ragno che si nutriva di animali. Ed allora tigri, elefanti, orsi, lupi, volpi, e ogni altro esponente della storia naturale gli chiesero di diventare il loro re, il Re degli Animali.
Dopo alcuni altri ostacoli, brillantemente superati, i quattro personaggi giungono da Glinda, la Strega del Sud. Con Glinda la quaternità, rappresentata dalle streghe incontrate durante tutto il processo, trova la sua unità. Inizialmente c’era una scissione in diadi: streghe buone e streghe cattive. Ma poi, a mano a mano, queste vengono a delineare un percorso che conduce l’io verso il Sé. “L’Uno diventa Due, e i due Tre, e per mezzo del Terzo il Quarto compie l’unità” (Jung, 1944, p. 160), dice una profetessa che nell’alchimia è nota come Maria Prophetissa. È infatti tramite le immagini delle streghe, le loro indicazioni, i loro doni, la loro saggezza, benefica e malefica, che si realizzerà l’individuazione per Dorothy. Fondamentali sono i doni che porta con sé la bambina: le scarpe argentate della Strega dell’Est, il bacio della Strega del Nord, la Cuffia della Strega dell’Ovest.
Al cospetto della Strega del Sud Dorothy racconta tutta la sua storia, le avventure vissute con i suoi compagni di viaggio, il suo desiderio di tornare nel Kansas a riabbracciare i suoi zii. La Strega si dimostra molto comprensiva ed affettuosa nei confronti della bambina, le stampa un bacio sulla fronte ed esclama: “Dio benedica il tuo cuoricino gentile” (Baum, 1900, p. 165). Come diceva il Mago di Oz, però, tutti debbono pagare per qualunque cosa ricevono, ma questa volta non le è richiesto un sacrificio mortifero come quello di affrontare la malvagia Strega dell’Ovest. La Strega del Sud le chiede di darle in cambio la Cuffia d’Oro, che teneva prigioniero il popolo delle Scimmie Alate, le quali erano costrette a esaudire tre desideri a chiunque la indossasse. E, dopo aver indossato la Cuffia, interroga i tre amici di Dorothy su cosa avrebbero fatto una volta che la bambina fosse tornata nel Kansas. Lo Spaventapasseri chiede di poter tornare a governare la Città di Smeraldo, compito che gli aveva affidato il Mago di Oz prima di partire, il Boscaiolo di Latta, invece, desidera governare il territorio dei Winkie, che con lui erano stati molto gentili, ed il Leone sarebbe voluto tornare nell’antica foresta in cui gli animali l’avevano acclamato Re. La Strega promette che i tre desideri della Cuffia d’Oro serviranno per esaudire le loro richieste, e che poi libererà per sempre le Scimmie Alate dall’incantesimo che le legava alla Cuffia (ancora energie da liberare!).
Dunque, oramai molti dei luoghi della psiche fino ad allora inesplorati, sono stati liberati, attraversati e vissuti dall’io e dalle sue energie riconquistate, ed ora possono essere governati in modo equo e giusto da chi ha vissuto su di sé la schiavitù generata dal vissuto traumatico.
Ma ora tocca a Dorothy avere il suo desiderio esaudito, un desiderio che, dice Glinda, era alla sua portata sin dall’inizio del percorso, ed è custodito nelle Scarpe d’Argento che, continua la Strega, “hanno poteri meravigliosi. Uno dei loro attributi più curiosi è che possono portarti in qualsiasi posto al mondo in tre passi, e ogni passo avrà la durata di un batter d’occhio. Non devi fare altro che battere i tacchi tre volte e ordinare alle scarpe di portarti dovunque tu voglia andare” (Baum, 1900, p. 168).
Nella commozione generale, quindi, tra abbracci e baci, si celebra l’addio al meraviglioso mondo di Oz, che non è altro che un arrivederci poiché l’io oramai è imperniato della meraviglia, dell’energia creativa di quel mondo.
Il Kansas ed il movimento a spirale
Per tre volte battè i tacchi, pronunciando il suo desiderio, e in un attimo Dorothy “si trovò a roteare in aria, così rapidamente che tutto quanto poté vedere o sentire fu il vento che le fischiava nelle orecchie. Le Scarpe d’Argento non fecero che tre passi, e poi la bambina si fermò così bruscamente da rotolare parecchie volte sull’erba prima di sapere dove si trovava. ‘Santo cielo’ esclamò. …era seduta sull’ampia prateria del Kansas, e proprio davanti a lei c’era la fattoria nuova costruita da Zio Henry dopo che il ciclone aveva portato via quella vecchia” (Baum, 1900, pp. 168-9).
Dunque, come avevo anticipato, la realtà del Kansas descritta all’inizio della storia non è più la stessa nelle ultime pagine, a cominciare dalla fattoria, che è stata ricostruita. Non vi è nessun riferimento al grigio del primo capitolo ma, anzi, lo Zio Henry sta mungendo una mucca, probabilmente per nutrirsi del suo latte e, a livello simbolico, della sua energia creativa.
Il Kansas rappresenta il Sé, che è allo stesso tempo il centro della psiche e la sua totalità, la meta del processo di individuazione e anche l’origine di esso. Come dice Aurigemma, il nulla pieno di possibilità infinite (cfr. Aurigemma, 1989, p. 202). Emblematiche in questo senso furono le parole dello Spaventapasseri, del Boscaiolo di Latta e del Leone quando la Strega del Sud rivelò a Dorothy che le Scarpe d’Argento l’avrebbero riportata nel Kansas sin dall’inizio, se solo avesse saputo come usarle: “Ma allora io non avrei avuto il mio meraviglioso cervello! – esclamò lo Spaventapasseri. – Avrei potuto passare tutta la vita nel campo di grano del fattore. – E io non avrei avuto il mio bellissimo cuore – disse il Boscaiolo di Latta. – Sarei potuto restare nel bosco rigido e coperto di ruggine fino alla fine del mondo. – E io avrei fatto in eterno la vita del vigliacco – dichiarò il leone – e nessun animale in tutta la foresta avrebbe avuto una buona parola per me”(Baum, 1900, p. 167). Dunque il Sé, che all’inizio si costella soltanto “in potenza”, si realizza attraverso l’intero processo d’individuazione.
Anche Zia Em è cambiata alla fine del processo di individuazione. Non viene descritta più come grigia ma, anzi, sembra molto affettuosa, quasi come la Strega del Sud. Glinda aveva salutato Dorothy ed i suoi amici in modo molto affettuoso e, scrive Baum, “si sorprese a piangere … per questo doloroso commiato dai suoi amati compagni” (ibidem, p. 168).Probabilmente tra il Kansas ed il regno di Oz, che inizialmente si erano presentati come due mondi così dissimili, è nata una realtà psichica intermedia, simbolica, impregnata sia del primo sia del secondo. Scrive Baum: “Zia Em – …alzò gli occhi e vide Dorothy che correva verso di lei. – Bambina mia! – gridò, abbracciando la piccola e coprendole il viso di baci – ma da dove sbuchi? – Dal Paese di Oz – disse Dorothy, tutta seria. Ed ecco qui anche Toto. …- oh, Zia Em! Come sono contenta di essere di nuovo a casa mia!” (ibidem, p. 170).
Dunque, Dorothy è di nuovo a casa sua, ma il movimento che si è costellato non è un movimento circolare, uroborico, che riconduce al punto di partenza. È un movimento spiraliforme, che porta allo stesso punto ma ad un livello diverso. L’immagine della spirale, infatti, rappresenta il cambiamento ed allo stesso tempo il ritorno ciclico, è il segno dell’equilibrio nello squilibrio, dell’ordine dell’essere in seno al mutamento. Rappresenta il carattere ciclico dell’evoluzione (cfr. Durand, 1963, p. 315). Dalla situazione statica e grigia iniziale, quindi, le energie psichiche hanno ripreso a fluire, affrontando l’ombra nera del trauma e delle difese archetipiche della psiche, in un movimento evolutivo che ha restituito alla realtà grigia del Kansas la luce ed il calore del meraviglioso mondo di Oz.
Conclusione
Anche questa storia, come quella di Apuleio, Amore e Psiche, presenta due parti: la prima in cui la psiche è completamente succube del sistema di autocura, la seconda, più dinamica, in cui la personalità si avvia verso la guarigione. Anche in questo caso i mondi nei quali l’io si muove sono due, uno conosciuto e legato alla concretezza, potremmo dire più umano, e l’altro magico, spettacolare, archetipico nel quale tutto è possibile, anche incontrare Streghe e Maghi, Uomini di Latta senza cuore, Spaventapasseri senza cervello, leoni codardi… Un mondo completamente scisso, che per fortuna è rimasto intatto.
Soltanto alla fine del processo si apre un varco tra i due mondi, tra i quali, direbbe Kalsched, era mancata la mediazione di una figura parentale transizionale capace di rendere l’esperienza rappresentabile, e quindi significativa (cfr. Kalsched, 1996, p. 78). Le immagini personificate, infatti, al termine del racconto, sembrano imperniarsi le une delle altre creando una realtà Altra. E le scarpe d’argento potrebbero rappresentare l’oggetto transizionale di cui parlava Winnicott, che fornisce al bambino la possibilità del passaggio all’esterno, che rappresenta la transizione stessa da uno stato di fusione a uno stato di rapporto con la madre come persona (cfr. Carotenuto, 1991, p. 103). Esse, quindi, esauriscono la loro funzione una volta che la bambina arriva nel Kansas: una volta che il legame tra i due mondi è stato creato, spariscono. Ed infatti, scrive Baum: “Dorothy si alzò in piedi e si trovò scalza. Perché le Scarpe d’Argento le erano cadute durante il volo nell’aria, e si erano perse per sempre nel deserto” (Baum, 1900, p. 9).
Infine, per concludere, mi sembra interessante porre attenzione sull’importanza che Kalsched attribuisce alla figura dell’analista nell’ambito del processo di elaborazione del trauma. Egli scrive che l’originaria situazione traumatica mette seriamente in pericolo la sopravvivenza della personalità soprattutto perché non viene conservata nella psiche in una forma personale, e quindi accessibile alla memoria, ma in una forma archetipica demonica (cfr. Kalsched, 1996, p. 61). “Questo … strato collettivo o ‘magico’ dell’inconscio … non può essere assimilato dall’io fino a che non si ‘incarna’ in una interazione umana. Essendo dinamismo archetipico, esso ‘esiste’ in una forma che non può essere recuperata dall’io se non in una esperienza di ritraumatizzazione.…la ripetizione inconscia di traumatizzazione nel mondo interiore, che continua incessantemente, deve diventare una traumatizzazione reale con un oggetto nel mondo, perché il sistema interiore possa essere ‘sbloccato’” (idem).
Possiamo quindi immaginare che il nuovo trauma del nostro racconto, rappresentato dal ciclone, sia stato causato da una esperienza profonda, vissuta come persecutoria, in ambito analitico. Le immagini delle streghe, quindi, potrebbero rappresentare, oltre a quanto è stato già detto, le proiezioni del soggetto nei confronti dell’analista, che a volte assumono le sembianze della strega-madre cattiva persecutoria, a volte di quella buona contenitiva, ma che al termine del processo si incarnano in una unica immagine: Glinda, la Strega del Sud (cfr. posizione schizoparanoide e depressiva della Klein). Anche il Mago di Oz, il daimon, tramite l’immagine concreta dell’analista può trovare un volto, essere mitizzato, e successivamente demitizzato, come avviene nella storia. Ed è allora che diviene lo psicopompo, colui che accompagna il paziente nel suo processo di guarigione, e che riconosce alle personificazioni della psiche le loro qualità (cervello, cuore, coraggio), a lungo ignorate.
Bibliografia:
Aurigemma l., 1989, Prospettive junghiane, Bollati Boringhieri, Torino.
Baum l.f., 1900, Il meravoglioso mago di Oz, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2001.
Carotenuto a., 1991, Trattato di psicologia della personalità, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Durand, g., 1963, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Dedalo, Bari, 1991.
Jung, c. g., 1944, Psicologia e alchimia, in Opere,vol. 12, Boringhieri, Torino, 1981.
Jung, c. g., 1946/48, Fenomenologia dello spirito nella fiaba, in Opere, vol. 9*, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Boringhieri, Torino, 1980.
Kalsched d., 1996, Il mondo interiore del trauma, Moretti & Vitali, Bergamo, 2001.
Questo articolo è stato anche pubblicato sulla rivista “Babele” dell’Istituto di Ortofonologia, n°39, del 2008: http://www.ortofonologia.it/babelenews/archivio/babele_39.pdf