La terapia di coppia
Prima parte
La terapia della coppia nasce nella seconda metà degli anni 40 in Inghilterra, nell’ambito quindi della tradizione clinica della “scuola britannica”, che a partire dai contributi di M. Klein, R. Fairbairn, D. Winnicott, introdusse e sviluppò i principi teorici e metodologici delle relazioni oggettuali, che rappresentarono un cambiamento radicale del paradigma clinico rispetto alla classica teoria pulsionale di Freud. In particolare, con i concetti di idealizzazione, proiezione, scissione, poi di identificazione proiettiva si pervenne anche, in forza di questa nuova forma mentis relazionale, a sperimentare setting diversi e più estesi rispetto a quello individuale. La psicoanalisi infantile con la stessa Klein e con Anna Freud era già una realtà. In più, negli anni della seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra, in un clima di generale rinnovamento, scatenato anche in ambito psicoanalitico dalla morte del fondatore, W. Bion e S.H. Foulkes, distintamente l’uno dall’altro, sempre in Inghilterra, avviarono in qualità di psichiatri la pratica clinica e i fondamenti teorici della psicoterapia di gruppo nei loro interventi con i militari reduci di guerra.
È negli anni ’60, in seguito anche all’opera di Winnicott, con la sua attenzione alla relazione primaria madre-bambino, in grado di determinare, o condizionare fortemente, le modalità future di investimento oggettuale, che tali principi poterono sensibilizzare il lavoro degli psicologi nei riguardi dei genitori e ampliare la prospettiva del setting terapeutico con le coppie.
Lo psichiatra Henry Dicks, il promotore della terapia della coppia, fu attratto specificamente dalla concezione espressa da Fairbairn, psichiatra di Edimburgo, il quale aveva introdotto un principio diverso rispetto a quello di Freud. Freud, entro il modello della propria teoria pulsionale, faceva iniziare tutto “dalla stimolazione del sistema nervoso a seguito di una eccitazione di varie zone erogene e di una tensione interna che nasce dalla attività gonadica”. Fairbairn considerava invece lo stadio di dipendenza infantile da un oggetto gratificante come il punto di partenza della capacità di intrecciare e sviluppare rapporti umani e la sua frustrazione come l’origine della psicopatologia. L’Io, presente fin dalla nascita, e l’energia libidica che è funzione dell’Io, sono fondamentalmente alla ricerca dell’oggetto, e non – come Freud sosteneva – alla ricerca del piacere. Le zone erogene non sono mete libidiche primarie, ma soltanto canali che mediano la finalità primaria di ricerca dell’oggetto. La relazione primaria alla base della relazione oggettuale. Per la verità, Fairbairn non è ritenuto, anche in ambito freudiano, il primo teorico di questa nuova visione relazionale, sebbene nel suo isolamento scozzese egli vi pervenne in modo pressoché autonomo. Negli stessi anni, anche Balint, allievo di Ferenczi, e lo stesso Winnicott avevano esplicitato nei loro scritti questa nuova prospettiva teorica. Ma fu Fairbairn soprattutto che stimolò direttamente le idee di Dicks.
Dicks vede nel matrimonio, o in una relazione affettiva duratura e significativa, una specie di “relazione terapeutica naturale”, in quanto essa viene formata proprio con l’obiettivo di accedere a una dimensione nuova ed evoluta, in grado di trasformare e rigenerare quanto già sperimentato sul piano affettivo e relazionale nei contesti familiari di provenienza: ognuno perciò reca con sé aspettative, desideri, bisogni di riparazione e li affida all’altro che tuttavia deve possedere aspetti di sé corrispondenti a tali attese, generando così nuove combinazioni delle rispettive trame narrative e fantasmatiche.
Possiamo considerare il matrimonio come una struttura o membrana diadica, come la chiama Dicks, dentro la quale si muovono due sistemi psicofisici, in interazione continua: dobbiamo pensare, quindi, al matrimonio non come a qualcosa di statico, ma come a un’entità psicodinamica. Questa struttura, o membrana diadica, contrassegna il diverso genere di realtà che è dentro di essa per distinguerlo da quello che è fuori di essa.
E’ importante la flessibilità del confine di questa struttura, cioè fino a che punto questa flessibilità può includere, senza danno per l’altro, quegli elementi propri o della coppia che sono rimasti fuori e, potremmo dire, quegli elementi per i quali è stata costituita. Ovviamente più è rigido questo confine più gravi potrebbero essere i danni, nel senso che le possibilità escluse al suo interno possono prima o poi defluire esternamente compromettendo la stessa unione. Però, quando un varco si apre nella membrana diadica ad opera di uno o di entrambi i partner, esso può svolgere anche una funzione positiva e servire ad attivare potenzialità relazionali precedentemente escluse.
Ma come si arriva al matrimonio? Come si sceglie il partner? Secondo Jung le motivazioni che sottendono alla scelta del partner traggono origine soprattutto dai genitori ed infatti scrive: «è in primo luogo il tipo di legame con i genitori a influenzare a livello inconscio la scelta del coniuge, favorendola od ostacolandola» (Jung, 1925, p.184). La scelta più comune è la proiezione dell’immagine interna del genitore del sesso opposto. Naturalmente l’immagine ideale di quel genitore senza gli aspetti negativi.
Il matrimonio è il più intimo e privato rapporto che conosciamo fra due persone. È un’esperienza intensa che possiamo paragonare al rapporto madre-bambino. Implica un’accettazione totale dell’altro, sebbene questa sia da considerarsi, più che la precondizione, l’approdo di un cammino innanzitutto dell’individuo e progressivamente della coppia. Che sia essenziale che un matrimonio funzioni bene è un dato inequivocabile, sia per la salute del singolo che della famiglia, ma anche per la società di cui è tuttora un nucleo fondamentale. Perché la coppia funzioni ciascun partner deve essere in grado di rapportarsi all’altro riconoscendolo come separato da sé, con caratteristiche proprie e indipendenti, con pensieri e modalità autonome con cui poter negoziare la relazione e la vita in comune. Ciò che inizialmente viene ricercato è una dimensione di costanza affettiva che garantisca una continuità con le precedenti esperienze ma nel contempo prometta possibilità trasformative e riparative.
In questo senso il legame di coppia è stato definito da Dicks “l’incastro di due mondi interni”, da intendersi come il tentativo, più o meno cosciente, di risolvere attraverso l’unione le problematiche interiori individuali. Questo “affido” reciproco di aspetti del proprio mondo interno può essere usato propulsivamente, all’insegna del compito evolutivo legato a processi di individuazione-separazione, oppure può rappresentare la messa in atto di una coazione interna regressiva, cui può corrispondere, in più, una compiacenza o disponibilità dell’altro che collude a una relazione distorta.
Giungono nella pratica clinica coppie che pur vivendo relazioni paralizzanti, castranti, persecutorie, perverse, tuttavia non riescono a cambiare, condannate in una dimensione di convivenza e di distanza. Si osserva in particolare la modalità di respingere aspetti di sé negativi, forzando l’altro a rivestire quei contenuti che non possono essere assunti in proprio perché dolorosi, o inaccettabili. Proiettare elude, come sappiamo, lo sforzo della consapevolezza, ed evita quindi il cambiamento.
Può accadere, d’altro verso, che il partner si faccia interprete di quanto immesso in lui/lei, proponendo a sua volta un copione interno speculare. La crisi insorge quando uno o entrambi i coniugi rinunciano improvvisamente o progressivamente a svolgere quella funzione di recettore che avveniva prima.
Quando una coppia si presenta a noi per difficoltà varie, ci chiediamo quale uso viene fatto della relazione a partire dall’ingaggio vicendevole. La domanda iniziale, schematicamente, è: complementarità riparativa o collusione disadattiva? In questo secondo caso, noi dobbiamo considerare il matrimonio come il malato, la interazione della coppia come il malato. Certamente dobbiamo fare una valutazione di ciascuno dei partner come individuo a sé, una valutazione dei fattori socio-culturali, del loro passato e del presente; ma il malato è il matrimonio.
Insistiamo su questo concetto perché, a volte soltanto uno dei partner appare malato, mentre l’altro assume l’atteggiamento dell’osservatore distaccato che viene soltanto per un atto di cortesia verso il partner o, addirittura, di cortesia verso il terapeuta.
Una volta, un marito disse: ”questa sera non volevo venire, sono venuto solo per correttezza nei suoi riguardi”. Per cui si può essere tentati di seguire, soltanto, il partner che appare malato. Questo sarebbe un grave errore perché il focus della terapia è l’integrazione coniugale e non il cambiamento di un coniuge a beneficio dell’altro coniuge.
Seconda parte
E’ possibile fare terapia di coppia a qualsiasi coppia? Ovviamente la risposta è no.
Ma non ci sono regole fisse o rigide. Possiamo dire quale è la nostra linea di condotta che è simile a quella di Giannakulas e degli operatori della Tavistock Clinic di Londra.
Per esempio, escludiamo dalle sedute congiunte, quelle coppie in cui uno dei partner è affetto da una malattia organica attiva o da una psicopatia grave o da una tossicomania – perché in questi casi è più utile una terapia individuale – oppure nasconde qualcosa.
Facciamo un esempio: una coppia sulla cinquantina: lei bionda, carina, forse un po’ troppo seria, casalinga; lui bruno non brutto, imprenditore. Era il primo colloquio. Lei raccontò che con il marito erano sorte delle difficoltà, lui negò, lei esplose: “ma se non facciamo più l’amore, abbiamo anche consultato il medico!”
Nel colloquio singolo lei raccontò che era innamorata del marito ed era sicura che anche lui lo fosse di lei ma, da un po’ di tempo, quando tentavano di fare l’amore, lui si bloccava.
Il terapeuta ipotizzò qualche pensiero dominante e la donna rispose: “si, il lavoro è aumentato ma non so altro. Ma se lei sospetta un’altra donna la risposta è NO! Mio marito non mi tradirebbe mai!”
Nel colloquio singolo lui ripeté che la moglie era esagerata, certo non era più come prima, il lavoro era aumentato. Poi un lungo silenzio. L’uomo si sentiva osservato, allora disse che da due anni aveva un’amante e sottolineò, molto più giovane di lui, ma che stava cercando di chiudere il rapporto, cosa non facile. Lui voleva bene alla moglie e non voleva che lei lo sapesse, ma non era facile chiudere con l’altra. Nel colloquio congiunto si disse che non c’erano gli elementi per una terapia di coppia, ma se avessero voluto dei nominativi di colleghi analisti con cui parlare … Lei rimase malissimo.
Torniamo ai casi in cui la terapia di coppia è utile:
- in situazioni in cui il trattamento è focalizzato sugli stress prodotti in entrambi i coniugi dal vivere l’uno con l’altro;
- nei casi in cui i conflitti concernono il predominio e la sottomissione;
- nei casi dei disturbi della funzione sessuale (impotenza maschile, frigidità femminile, dolori durante l’amplesso); a meno che non ci sia una patologia organica o biochimica, questi sintomi sono segnali di conflitti nella persona circa i rapporti oggettuali libidici proiettati sul partner;
- in situazioni legate alla perdita di affetto: il “partner malato”chiede aiuto per il cattivo comportamento del “partner che sta bene”.
Oggi è molto diffusa l’immaturità affettiva che impedisce e danneggia la relazione. Ognuno tende a rimanere chiuso nel suo piccolo mondo di egoismo, di pretese, di lamenti infantili. “Sono fatto così” dice il partner e non crede di poter cambiare o forse non vuole.
Le difficoltà più diffuse sono:
- la difficoltà di svolgere il proprio ruolo di coniuge;
- la diminuzione o assenza di rapporti sessuali;
- la scoperta di un amante o altro genere di vita segreta;
- una gravidanza inattesa;
- un bambino disturbato;
- un adolescente che dà preoccupazioni;
- la perdita o la separazione da persone care;
- un parente che crea problemi.
A proposito di genitori o parenti, può accadere che vengano usati come alleati e che sentimenti di rabbia, non chiariti nell’ambito della coppia, vengano spostati sui parenti. Ad esempio: “tu non hai mai potuto vedere i miei …”, “tua madre mi tratta male …” etc.
Così la situazione si allarga a macchia d’olio senza chiarimenti. È importante saper spostare il discorso sulla coppia e far capire che lo slittamento sui parenti è soltanto una fuga dall’affrontare i propri problemi.
Terza parte
Purtroppo la terapia della coppia non è ancora abbastanza diffusa, per cui è ancora raro che una coppia venga per se stessa. Più frequentemente la spinta è data da un figlio che presenta problemi.
Partendo dall’esperienza terapeutica fatta con i bambini, cioè che dietro ogni bambino ansioso, disadattato c’è una relazione di coppia difettosa, diamo grandissima importanza al primo colloquio che dividiamo in quattro tempi:
un primo momento in cui si lascia parlare la coppia del figlio e dei problemi del figlio per poi portare il discorso su di loro, ed è qui che è importante l’uso appropriato delle parole. In seguito, quando ci si rende conto che il disagio è nella coppia, si parla con loro separatamente. Infine nuovamente con tutti e due. Il tutto in una sola seduta.
Dopodiché, iniziati i colloqui, non si parlerà mai più singolarmente. Se qualcuno arriva prima aspetta nella sala d’attesa: questo perché, come abbiamo già detto, il malato è il matrimonio, la relazione di coppia. Se c’è qualcosa da dire va detta coraggiosamente e non deve essere un segreto. Parlare singolarmente potrebbe incrinare il lavoro.
Quali sono i vantaggi della Terapia di Coppia? Poiché lo scopo è di modificare il rapporto, nella TC, avendo entrambi i coniugi presenti, il rapporto viene osservato meglio. C’è minor rischio di essere travolti, trascinati dai problemi personali che non sono comuni ai due e che, perciò, sono meno centrali nel loro rapporto. Inoltre si possono fare osservazioni utili che l’assenza dell’altro rinvia all’immaginazione.
Ad esempio l’aspetto fisico, il modo di parlare, la gestualità, la partecipazione, l’abbigliamento, il grado culturale, la capacità di interagire.
Si può, inoltre, osservare se c’è una sincronizzazione nel cambiamento del rapporto.
In termini di sviluppo, dobbiamo pensare che se una persona non ha ancora elaborato e superato una situazione di conflitto con i genitori, se l’Io è rimasto in uno stato di dipendenza infantile, se non è andato oltre la fase filiale, questa persona avrà un investimento del Sé diminuito da offrire in una situazione adulta.
Quindi, per un buon funzionamento di coppia è importante il grado di differenziazione personale raggiunto da ciascun partner prima di innamorarsi, cioè il grado di evoluzione dell’Io.
È importante, durante il lavoro, favorire la maturazione individuale.
Tra le modalità difensive che la coppia mette in atto ricordiamo: la negazione, l’identificazione proiettiva, l’idealizzazione e la collusione. Il significato di collusione è “giocare con” dal latino “ludere cum”, ma “ludere” significa anche ingannare, quindi, un gioco in cui ci si inganna, un gioco nel quale qualcuno attribuisce all’altro, a livello inconscio, bisogni o sentimenti.
La collusione ha la funzione di proteggere le illusioni che hanno determinato la scelta.
Spesso la distruttività dei coniugi nasce dalla loro collusione rispetto all’ideale del matrimonio.
Per quanto riguarda la valutazione della situazione è importante cercare di capire se esiste ancora la membrana diadica, se i due partners sono ancora coinvolti libidicamente, se pur in modo immaturo e doloroso.
Bisogna fare attenzione a quei dati che si riferiscono alla percezione che ogni partner ha dell’altro e alla natura e al livello di sviluppo dell’investimento del partner come oggetto di amore. A questo insight si giunge osservando il modo in cui i fenomeni si trasformano, con il passare del tempo e in virtù della interazione con il terapeuta.
Cosa ci prefiggiamo? Ci prefiggiamo di lasciare, alla fine, due esseri umani con un migliore adattamento alla realtà interna ed esterna. Di vedersi più obiettivamente, di proiettare di meno, di sapere trattare la propria aggressività e ambivalenza in modo meno infantile e distruttivo. In modo da poter fare le proprie scelte in piena coscienza delle loro implicazioni. Il nostro scopo, lo riconosciamo, è quello di mantenere e migliorare il rapporto di coppia, non di romperlo.
Bibliografia
Carli L. (1995), Attaccamento e rapporto di coppia. Il modello di Bowlby nell’interpretazione del ciclo di vita, Cortina Raffaello, Milano.
Carli L. (1999), Dalla diade alla famiglia. I legami di attaccamento nella rete familiare, Cortina Raffaello, Milano.
Carli L., Cavanna D., Zavattini G.C. (2008), Psicologia delle relazioni di coppia, Il Mulino, Bologna.
Dicks, H.V. (1967), Tensioni coniugali,Borla, Roma, 2009.
Jung, C.G. (1925), Il matrimonio come relazione psicologica, Opere, vol. 17, Boringhieri, Torino, 2000.
Monguzzi F., La coppia: analisi della domanda di psicoterapia congiunta, PSYCHOMEDIA, http://www.psychomedia.it/pm/grpind/family/monguzzi1.htm.
Autori: Caterina Rocca Guidetti, Alessandra Corridore, Rosa Maria Dragone, Daniele Rondanini, Anna Maria Stella
Questo articolo è stato anche pubblicato sulla rivista “Quaderni di cultura junghiana” n°2, 2013, http://www.cipajung.it/q2/14_CIPA_QDCJ_2_2013.pdf