RAPPORTO FRA ISTINTO E ARCHETIPO SECONDO LA TEORIA JUNGHIANA
Alessandra Corridore
Introduzione
1 – Il problema degli istinti
2 – Gli istinti e la psiche
3 – Istinto e volontà
4 – Una molteplicità d’istinti
5 – L’archetipo. Il punto di vista biologico: physis e psyché
6 – Il punto di vista filosofico: archetipo ed immagini archetipiche
7 – Complesso e archetipo
8 – Istinto e archetipo: la metafora dello spettro della luce
Bibliografia
RAPPORTO FRA ISTINTO E
ARCHETIPO SECONDO LA TEORIA JUNGHIANA
Alessandra Corridore
“Poi ci sono gli archetipi, le immagini dell’istinto…” Jung, Jung parla.
“Come gli istinti inducono l’uomo a un comportamento specificamente umano,
così gli archetipi costringono la percezione e l’intuizione a formazioni specificamente umane.
Gli istinti e gli archetipi dell’intuizione formano l’inconscio collettivo.
Io chiamo collettivo questo inconscio perché … esso non ha contenuti individuali,
cioè più o meno unici, bensì contenuti universalmente e uniformemente diffusi”
Jung, Istinto e inconscio.
“L’archetipo è da un lato un fattore spirituale,
dall’altro un che di simile a un senso celato, immanente all’istinto”
Jung, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche.
Introduzione
L’istinto e l’archetipo rappresentano due aspetti della visione junghiana della vita psichica tra di essi intimamente e dinamicamente legati. Jung li descrive come opposti nel senso più radicale del termine, per poi tracciare le connessioni che esistono fra queste due istanze.
Nella prima parte del lavoro verrà trattato il concetto di istinto. Dopo un breve accenno a come il tema dell’istinto veniva affrontato da filosofi e psicologi di fine Ottocento ed inizio Novecento, si passerà ad esaminare la posizione dell’istinto all’interno della psicologia di Jung, con riferimento al modo in cui egli, partendo da una visione biologica e pulsionale, ampliò la definizione del termine per includere la creatività, l’istinto religioso e l’istinto di individuazione.
La seconda parte del lavoro prenderà in esame lo sviluppo dell’uso del termine archetipo negli scritti di Jung trattandolo, in particolare, dai punti di vista biologico e filosofico, sottolineando la distinzione tra archetipo ed immagini archetipiche e la relazione che l’archetipo, in quanto espressione dell’inconscio collettivo, intesse con il complesso, nucleo inconscio personale.
Infine ampio spazio verrà dedicato al modello dello spettro della luce adoperato da Jung per approfondire l’archetipo come l’immagine del senso e del significato dell’istinto, e al rapporto dinamico e creativo che vi è fra le due istanze.
Tuttavia, prima di introdurre gli argomenti appena esposti, è necessario spendere una breve riflessione sulle modalità di espressione utilizzate da Jung nel descrivere concetti fondamentali della sua teoria come quelli di istinto e, in particolare, di archetipo. A volte, infatti, le sue definizioni sono molteplici, apparentemente poco chiare ed esaustive, talvolta tra di esse contrastanti[1]. Questo è richiesto, lo spiega Jung stesso, dalla particolarità e dalla complessità della materia trattata.
Va ricordato in proposito che egli, nel 1928, scrisse che la psicologia analitica può essere definita anche psicologia complessa[2] poiché si differenzia dalla psicologia sperimentale, che tenta d’isolare singole funzioni (funzioni sensoriali, fenomeni emotivi, processi di pensiero…) per sottoporle ad esperimento; “si occupa invece del fenomeno totale della psiche come esso esiste naturalmente, e dunque d’una configurazione estremamente complessa”[3].
La complessità della materia psichica della quale si occupa lo indurrà anche ad ammettere, come scriverà in una lettera nel 1952, “di aver sempre cercato un linguaggio ambiguo per la sua psicologia, nonostante una sua tendenza naturale ad usare termini univoci e scientifici.
È soltanto così, spiega Jung …, che ci si può avvicinare all’aspetto doppio della nostra vita psichica ed avere un quadro della realtà più completo. Tutte le sfumature, le risonanze e le allusioni di questo tipo di linguaggio sono presenti nella vita e ci conducono verso la verità. E in risposta a chi lo criticava per il suo stile così intuitivo, Jung avrebbe detto a Gerard Adler:
‘Io devo cogliere i riflessi del fuoco primordiale negli specchi che colloco intorno ad esso; naturalmente questi specchi non sempre combaciano perfettamente”[4].
1 – Il problema degli istinti
Il tema dell’istinto fu molto dibattuto dai contemporanei di Jung in ambito sia filosofico sia psicologico.
Karl Groos, della cui opera Jung possedeva una edizione, riteneva che prima del XIX secolo la concezione più diffusa sull’istinto fosse quella che egli definì trascendental-filosofica. L’istinto, inteso come capacità di commisurare i mezzi ai fini, evidente in quella che sembra solo apparentemente intelligenza negli animali, era considerato un fattore innato creato da Dio. Con l’avvento del XIX secolo alcuni studiosi tentarono di eliminare questo legame con la metafisica mentre altri abolirono semplicemente il termine.
Per la biologia e la filosofia tedesche il termine istinto era da riferirsi agli animali mentre, per indicare fattori analoghi negli esseri umani, veniva utilizzato il termine pulsione. I filosofi (Schopenauer, Hartmann…) riflettevano sul numero e sulla natura delle pulsioni come manifestazioni motivazionali della natura umana. Nel 1899 Darwin, al quale si deve l’opera Origini della specie, riteneva che gli istinti si originassero dalla selezione naturale, grazie alla lenta e graduale accumulazione di numerose variazioni lievi ma vantaggiose. Dunque, la teoria darwiniana ridefiniva il rapporto tra animale e uomo, e quindi tra biologia e psicologia[5].
Vale la pena citare anche il pensiero di Nietzsche (1844-1900) che apparentemente sembra accordarsi alle concezioni filosofiche tedesche del XIX secolo. Egli infatti postulava l’esistenza di una serie di istinti e pulsioni, tutti manifestazioni della volontà di potenza, la cui emersione (o occultamento) poteva essere correlata al contesto storico-culturale. Ad esempio riteneva la morale cristiana antinaturale perché responsabile del disconoscimento del ruolo delle pulsioni, gli istinti vitali dell’uomo, in filosofia, e causa della decadenza della società. Affermava che l’uomo fosse l’animale più malato poiché è “quello più pericolosamente deviato dai propri istinti”[6].
Nietzsche operò dunque una rivalutazione di pulsioni e istinti che per lui erano in continuo conflitto l’uno con l’altro. Scriveva: “Mentre ‘noi’ crediamo di starci lamentando della veemenza di una pulsione, in fondo c’è una pulsione che si lamenta di un’altra”[7].Ed affermò anche che “la maggior parte del pensiero di un filosofo è segretamente guidata e incanalata in percorsi particolari dai suoi istinti”[8].
In ambito psicologico James (1842-1910), Ribot (1839-1916) e McDugall (1871-1938) collegavano l’emozione all’istinto che, affermavano, ne rappresentava la matrice. “Sottolineare l’importanza degli istinti aveva inoltre il significato di distinguere la psicologia dalla filosofia morale e dalla psicologia filosofica. … La plasticità del termine ‘istinto’ significava che poteva essere portatore di molte connotazioni metaforiche e che poteva sembrare radicato nella biologia”[9]. Si differenziavano però tra di essi e con altri psicologi contemporanei per quanto riguarda la definizione degli istinti da prendere in considerazione.
William James, nei suoi Principi di psicologia (1890), definiva gl’istinti come “facoltà di agire in modo tale da produrre certi fini senza prevederli e senza un’educazione precedente riguardo all’azione da intraprendere”[10].
Per quanto riguarda la differenza tra uomo ed animale, un’ipotesi tradizionale riteneva che stesse nel fatto che l’uomo possiederebbe una quantità di istinti molto limitata e che al posto di questi subentrerebbe la ragione. James affermava invece che la ragione fosse una tendenza ad obbedire a certi impulsi (traduceva Trieb con questo termine) i quali sarebbero di numero maggiore nell’uomo rispetto all’animale. Enumerava una serie di azioni istintive che, sin dall’infanzia, (succhiare, mordere, afferrare oggetti…) ma anche nell’età adulta (emulazione, combattività, compassione, paura, amore, gelosia…), caratterizzerebbero la specie umana. Egli riteneva che il problema dell’istinto fosse strettamente legato all’emozione che esso evocava[11].
Théodule Ribot (1896) concordava con James sulla varietà degli istinti presenti nell’uomo (anche se ne contestava l’elenco) e riteneva che nell’istinto si potesse trovare la radice dell’emozione[12].
Il filosofo francese Alfred Fouillée (1838-1912)[13] includeva nella sua teoria delle idées-forces l’istinto. Definiva le idee-forza non come rappresentazioni ma come forme di pensiero e di azione (ad esso conseguente) che scaturirebbero dalla sensazione e dalla riflessione su di essa. Non sarebbero ereditate ma lo sarebbe, in una certa misura, il rapporto tra di esse (per esempio l’atto di distinguere è inseparabile dall’atto di preferire). Gli istinti sarebbero tipi fissi di idee-forza. In essi non vi sarebbero rappresentazioni innate, ma soltanto l’attitudine a crearle qualora se ne presentasse l’occasione. Va sottolineata anche la concezione di Fouillée secondo la quale non esistono soltanto idee-forza individuali, ma anche collettive, che costituirebbero la coscienza nazionale o l’anima di un popolo[14].
William McDugall (1871-1938) si occupò della cosiddetta “psicologia ormica”, basata su tendenze istintuali primarie (in greco: ormé) che fungono da fattori motivazionali. Egli riteneva che la vecchia psicologia statica descrittiva e analitica dovesse cedere il passo ad una visione della mente dinamica secondo la quale ogni istinto condizionerebbe un unico tipo di emozione da esso derivata (per esempio la paura considerata come espressione dell’istinto di fuga, la collera dell’istinto di lotta, la tenerezza dell’istinto parentale…). Questi istinti, evolvendosi nel corso dello sviluppo individuale, costituirebbero i fondamenti della vita sociale[15].
Va inoltre citato Henri Bergson (1859-1941). Egli riteneva che il fondamento di tutto l’universo fosse una energia in trasformazione, una forza vitale che chiamò élan vital, un impulso spontaneo, creatore di forme sempre nuove ed imprevedibili. L’élan vital sarebbe costituito da due aspetti, deputati alla soddisfazione dei bisogni della vita: intelletto ed istinto, di cui il primo non permetterebbe di cogliere l’essenza della vita, mentre l’istinto sarebbe modellato sulla forma stessa della vita. Si tratterebbe della capacità innata di servirsi di strumenti organizzati forniti dalla natura, ad esempio gli organi del corpo. Rappresenterebbe un atto incosciente ed obbligatorio, simile a quello degli animali. Scevro dalla consapevolezza che può dare solo l’intelletto. Parlò allora di intuizione, un istinto autocosciente, riuscendo ad unire l’immediatezza e la concretezza dell’istinto con la consapevolezza dell’intelletto. L’intuizione per Bergson corrisponderebbe all’istinto “fattosi disinteressato, conscio di sé, capace di riflettere sul proprio oggetto e di ampliarlo indefinitamente”[16].
2 – Gli istinti e la psiche
Scrive Jung: “Poiché la psiche umana vive in inscindibile unità con il corpo, la psicologia può distaccarsi solo artificiosamente da premesse biologiche; e poiché queste sono valide per tutto il mondo animato e non soltanto per l’uomo, offrono al fondamento scientifico una sicurezza superiore a quella offerta dal giudizio psicologico, il quale è valido esclusivamente nell’ambito della coscienza”[17]. E probabilmente, continua, è da attribuire a ciò il motivo della grande resistenza della comunità scientifica nei confronti della nascente disciplina psicologica[18].
Nel 1932, in I rapporti della psicoterapia con la cura d’anime, Jungfa un breve excursus sulle tappe che hanno portato la scoperta della sfera psichica, come fattore etiologico o agente patogeno, a rivoluzionare la scienza medica, non senza creare dei problemi dal punto di vista teorico. I numerosi tentativi di ricondurre il fattore psichico a fattori fisici si rivelarono degli insuccessi tranne, in parte, scrive Jung, per quanto riguarda il concetto di “istinto”. Come noto il termine è preso in prestito dalla biologia secondo la quale “gli istinti sono sollecitazioni fisiologiche molto sensibili basate sulle funzioni ghiandolari che, a quanto l’esperienza ha dimostrato, condizionano o influenzano i processi psichici”[19].
Partendo da questo presupposto Jung prova a domandarsi se la psiconevrosi possa essere definita e trattata come una malattia ghiandolare. La risposta la si trova nell’evidenza che la terapia organica è assolutamente inefficace nelle nevrosi. L’intervento su una ghiandola non guarisce la nevrosi ma, al contrario, si è visto che
“i mezzi psichici … guariscono come se fossero estratti ghiandolari. … Per esempio, una spiegazione pertinente o una parola di conforto possono avere un certo effetto curativo che in ultima analisi agisce anche sulla funzione ghiandolare … le finzioni, le illusioni, le opinioni sono le cose più intangibili, più irreali che si possano immaginare, eppure da un punto di vista psicologico e persino psicofisico sono le più efficaci”[20].
Per Jung gli istinti, dal punto di vista psicologico, vanno intesi come forze motivanti dell’accadere psichico che possono determinare il comportamento umano. Egli parte dall’ipotesi che “la funzione psichica è un fenomeno concomitante di un sistema nervoso in qualche modo centralizzato”[21]. Considera verosimile l’ipotesi che la funzione psichica sia connessa con il cervello. Ritiene tuttavia che l’obbligatorietà caratteristica dell’istinto sia un fattore extrapsichico, anche se psicologicamente significativo poiché produce le immagini. Sono le rappresentazioni infatti i fattori che determinano il comportamento umano[22]. Dunque,
“il fattore direttamente determinante non è l’istinto extrapsichico, bensì l’immagine che sorge dal concorso fra l’istinto e la situazione di volta in volta data. Il fattore determinante sarebbe di conseguenza un istinto modificato, il che forse significa qualcosa di analogo alla differenza tra il colore che noi vediamo e la lunghezza d’onda obiettiva. Al fatto extrapsichico dell’istinto toccherebbe il ruolo di un puro stimolo; il fenomeno istintivo psichico invece sarebbe un’assimilazione dello stimolo a una complessità psichica già esistente, ciò che io definisco col termine di psichificazione. Ciò che noi chiamiamo sinteticamente istinto sarebbe perciò un dato già psichificato di origine extrapsichica”[23].
Di conseguenza, la medicina ora non può più negare ciò che è psichico. “Gli istinti sono stati riconosciuti una condizione dell’attività psichica che, a sua volta, sembra condizionare l’istinto”[24]. In che modo ciò accada lo chiarirò strada facendo.
Per anticiparlo, si può citare una frase della Tabula Smaragdina, che potrebbe descrivere metaforicamente la psiche e il suo dinamismo, la quale recita così: “Quod est inferius est sicut quod est superius. Et quod est superius, est sicut quod est inferius, ad perpetrando miracula rei unius”[25]. La parte “superiore” della psiche, che si trova più in superficie, è rappresentata dalla coscienza, mentre quella “inferiore”, più in profondità, dalla quale Jung spesso ribadisce che si origina l’altra, è l’inconscio. Insieme danno vita ad un dinamismo che caratterizza l’unità psichica e che permette all’istinto di diventare psichico.
3 – Istinto e volontà
Già Freud, il padre della psicoanalisi, aveva descritto la psiche come costituita dalla coscienza e dall’inconscio. Per “coscienza” intendeva quell’esperienza individuale, che si offre all’intuizione immediata, di contenuti della psiche facilmente riproducibili. Parlando di “inconscio”, in senso descrittivo, si riferiva a quei contenuti non presenti nel campo attuale della coscienza che, seppur dimenticati e non riproducibili, fanno parte della sfera psichica[26].
L’inconscio quindi contiene in sé fenomeni psichici privi della qualità della coscienza. Jung definisce tali fenomeni subliminali,secondo l’ipotesi che ogni contenuto inconscio necessita di un certo valore energetico per assurgere a coscienza (inconscio personale). L’inconscio per Jung, però, a differenza di Freud, non è soltanto il luogo del rimosso. Sono presenti in esso anche gli istinti, caratteristiche che non sono acquisite individualmente, ma ereditate. Parla dell’esistenza di un profondo legame dell’inconscio con la sfera istintuale[27].Definisce gli istinti come“impulsi ad attività che procedono, senza motivazione conscia, da una costrizione interiore”[28]. E continua: “Gli istinti sono forme tipiche dell’agire … che si ripetono uniformemente e regolarmente … che vi si associ o no una motivazione conscia”[29], anche se ammette che non si può dire molto di più in proposito e riconosce quanto sia problematico definirli o stabilirne numero e limiti (come anche per gli archetipi).
Si può affermare soltanto che hanno un aspetto biologico ed uno psicologico[30] e cita Jerusalem e Külpe che rispettivamente li definivano come disposizioni fisiologiche e psichiche seguite da moti dell’organismo ben direzionati e come un amalgama di sentimenti e sensazioni organiche[31]. Si potrebbe affermare dunque che tutti i processi psichici sono legati ad un sostrato organico, poiché incorporati alla vita complessiva dell’organismo con la quale condividono il suo dinamismo (istinti), ed in qualche modo conseguenza dell’azione degli istinti. Anche se ciò, Jung lo sottolinea, non può far derivare la psiche esclusivamente dalla sfera istintuale[32].
Gli istinti possono essere trasformati se entrano in relazione con la coscienza, anche se soltanto nei loro effetti. L’uomo infatti può trasformare parzialmente, addomesticare, l’istinto in azioni volontarie anche se il nucleo centrale resta sempre invariato. Esso può risultare poco evidente, mascherato da motivazioni ed intuizioni razionali, ma nell’eccessività di alcuni atteggiamenti torna ad essere presente nella sua forma più genuina, come risultato di un processo inconscio che non ha nulla a che vedere con le motivazioni ragionevoli[33]
Jungriprende Janet quando parla di partie supérieure et inférieure d’une fonction per poter chiarire la distinzione tra istinto e volontà (cosciente). Janet scriveva:
“Mi sembra necessario distinguere in ogni funzione parti inferiori e parti superiori. Quando una funzione si esercita da lungo tempo essa contiene parti molto antiche, che agiscono con grande facilità e sono rappresentate da organi pienamente distinti e specializzati… sono queste le parti inferiori della funzione. Ma io credo che in ogni funzione vi sono anche parti superiori che consistono nell’adattamento della funzione stessa a circostanze più recenti, molto meno abituali, e che sono rappresentate da organi molto meno differenziati – capaci di adattarsi – …alla circostanza particolare esistente al momento presente, al momento in cui dobbiamo impiegarla…”[34].
Secondo Jung la base istintuale controllerebbe
“la partie inférieure della funzione. La partie supérieure invece corrisponde alla parte prevalentemente ‘psichica’ della funzione stessa. Partie inférieure è la parte relativamente immutabile, automatica della funzione, partie supérieure la parte volontaria e variabile. … – lo ‘psichico’ ed il ‘fisiologico’ – sono entrambi fenomeni vitali che differiscono però per il fatto che la parte di funzione definita partie inférieure ha un aspetto inconfondibilmente fisiologico. Il suo essere o non essere sembra legato agli ormoni. Il suo funzionamento ha il ‘carattere dell’obbligatorietà’ … La partie supérieure invece, per la quale la migliore descrizione possibile è quella di psichica, e che viene anche sentita come tale, ha perso il carattere di obbligatorietà, può essere assoggettata al libero arbitrio e perfino piegata a un uso antitetico rispetto all’istinto originario. Alla luce di questa riflessione, lo psichico appare come un’emancipazione della funzione dalla forma istintuale e dalla sua obbligatorietà che, come unica determinazione della funzione, la irrigidisce riducendola a un meccanismo”[35].
Si può parlare di condizione o qualità psichica a mano a mano che la sfera istintuale si libera dalle rigidità date dalla sua natura fisiologica e si allontana dall’orientamento originario per raggiungere una forma di consapevolezza. In tal caso si verifica una modificazione non dell’energia istintuale, ma delle sue forme di applicazione, che sono determinate da una scelta volontaria. Ai fini della conservazione dell’esistenza, la differenziazione della funzione dall’istintività obbligatoria all’utilizzabilità volontaria è molto importante anche se, afferma Jung, acuisce fratture e conflitti ed il rischio di sfociare nella dissociazione. Quindi, la volontà può influire sulla funzione poiché rappresenta una forma di energia capace di influenzarne o sopraffarne un’altra. É ‘motivata’ dagli istinti, ma fino ad un certo punto. È una somma limitata di energia di cui la coscienza può disporre liberamente[36].
La psiche, intesa come dimensione di consapevolezza, si estende laddove vi sono funzioni influenzate dalla volontà, che però non può superare i limiti della sfera psichica. E come non può costringere l’istinto, non ha potere sullo spirito. Per Jung l’istinto e lo spirito rappresentano gli opposti che circoscrivono il campo di applicazione della volontà. Se predomina l’istinto non siamo più in ambito psichico ma psicoide, ed i contenuti appartengono alla sfera dell’inconscio in quanto contenuti che non possono assurgere a coscienza[37]. “Rispetto allo stato psicoide riflesso-istintuale, la psiche rappresenta quindi un allentamento dei legami e una recessione crescente dei processi meccanici a favore di modificazioni ‘scelte’”[38].
4 – Una molteplicità d’istinti
Quando l’istinto entra a far parte della sfera psichica, scrive Jung in Determinanti psicologiche del comportamento umano (1937), può perdere alcune caratteristiche sue proprie qualil’univocità e l’obbligatorietà,poiché non è più un elemento extrapsichico, univoco, bensì una modificazione condizionata dallo scontro con il dato psichico[39]. Elenca “cinque gruppi principali di fattori istintivi: la fame, la sessualità, l’attività, la riflessione e il fattore creativo”[40].
La fame, come diretta espressione dell’istinto di conservazione, è uno dei fattori primordiali più determinanti il comportamento umano anche se, quando diventa un contenuto psichico, acquisisce straordinarie caratteristiche di variazione e trasmutazione. Si possono avere innumerevoli reazioni psicologiche allo stimolo della fame, o anche la si può intendere in senso metaforico, come bramosia di qualcosa[41].
Anche la sessualità ha il suo fondamento nell’istinto di conservazione, tuttavia ha subìto delle modificazioni culturali dovute a restrizioni di natura morale e sociale le quali hanno portato alla sopravvalutazione dell’aspetto voluttuoso che nell’uomo, a differenza degli altri animali, si fa sentire come un impulso a sé rispetto al compito della riproduzione al quale è associato. Si tratta di un impulso che accompagna sentimenti ed affetti, interessi spirituali e materiali. Come la fame, è soggetto alla psichificazione, che “distoglie dall’applicazione biologica un’energia che in origine è puramente istintuale e la rende utilizzabile per altri scopi”[42].
Si può ipotizzare quindi l’esistenza di altre forze istintuali capaci di determinare talimodificazioni o deviazioni dei suddetti istinti. Non può essere la realtà esterna causa esclusiva di ciò poiché, se non ci fosse una disposizione interiore a monte, le condizioni esterneopererebbero soltanto come fonti di danno, producendo personalità nevrotiche. “Soltanto altri fattori istintuali possono contrastare efficacemente gli impulsi”[43].
Jung distingue quindi una terza tipologia d’impulso: l’istinto di attività, che funziona quando gli altri sono soddisfatti (per esempio istinto migratorio, piacere di cambiare, irrequietezza, istinto del gioco)[44].
Includendo riflessione e creatività, amplia ulteriormente le categorie dell’istinto[45] e,in riferimento all’impulso di riflessione, nel 1937 scrive:
“Reflexio significa ripiegamento, e nell’ambito psicologico si definirebbe con questo termine il fatto che il processo del riflesso, il quale convoglia lo stimolo nello scarico istintuale, è interrotto dalla psichificazione. I processi psichici esercitano un’azione attrattiva sull’istinto di attività che procede dallo stimolo in conseguenza dell’intromissione della riflessione, cosicché l’impulso viene deviato in un’attività endopsichica prima di scaricarsi all’esterno. La reflexio è una sterzata verso l’interno con la conseguenza che, in luogo di una reazione istintiva, sorge una successione di contenuti o stati che si potrebbero definire all’incirca come riflessione o ripensamento. In tal modo all’obbligatorietà subentra una certa libertà e in luogo della prevedibilità una relativa imprevedibilità delle conseguenze”[46].
Dunque, la psichificazione dei contenuti istintuali avviene tramite l’istinto di riflessione, essenza e ricchezza della psiche umana,che dà vita alla riproduzione di immagini. Queste, specifica Jung, possono manifestarsicome espressione linguistica diretta o come espressione del pensiero astratto, come azione rappresentativa o come comportamento etico, come ritrovato scientifico o come rappresentazione artistica[47]. Egli definiscela riflessione come “l’istinto civilizzatore ‘par excellence’… la sua forza si palesa nell’autoaffermazione della civiltà di fronte alla nuda natura”[48] poiché con essa un processo naturale si trasforma più o meno completamente in un contenuto della coscienza. Non si tratta però di un’opera creativa. La riflessione mantiene la caratteristica di automatismo tipica degli istinti e “L’obbligatorietà, che suscita il timore dell’uomo civilizzato, provoca anche quella caratteristica angoscia nei confronti del divenire coscienti che si può osservare nel modo più chiaro, anche se non esclusivamente, nell’uomo nevrotico”[49].
Jung invece definisce la creatività come un fattore psichico simile all’istinto[50]. Lo chiama però anche istinto creativo poiché dinamicamente si comporta come tale.
“È obbligatorio quanto l’istinto, ma non è universalmente diffuso e non è un’organizzazione stabile e sempre ereditata … ha una relazione intensissima con gli altri istinti, ma non s’identifica con nessuno di essi. I suoi rapporto con la sessualità rappresentano un problema molto dibattuto, ad esso ha molto in comune l’istinto di attività, e così pure l’istinto di riflessione. Ma può anche reprimere tutti questi istinti o asservirli, fino all’autodistruzione dell’individuo. La creazione è tanto distruzione quanto costruzione”[51].
Molti anni dopo Jung, in una nota, farà ancora riferimento alla pulsione creatrice come possibilità del tutto umana di non insterilirsi nel conflitto tra pulsione naturale e norma collettiva di valore (alla quale Freud faceva corrispondere il suo Super-Io), ma di poter dar vita a significati del tutto nuovi, come espressione dell’essere individuale[52].
Dunque, nel 1919, lo abbiamo visto precedentemente, Jung parla degli istinti come di forme tipiche dell’agire[53], il chefarebbe pensare alla possibilità di definirli anche numericamente. Nel 1937, com’è scritto in questo capitolo, enumera una quantità limitata di istinti. Nel 1947, quando collegherà, lo vedremo in seguito, il concetto di istinto a quello di archetipo, ammetterà che sull’istinto, alla stregua dell’archetipo, non si può dire molto e riconoscerà quanto sia problematico definire o stabilire numero e limiti di entrambi[54]. L’introduzione da parte di Jung del concetto di inconscio collettivo, infatti, ampliò molto la gamma di possibilità dell’attività istintiva. Commenta Shamdasani: “Abbiamo visto che da un lato Jung postulava un numero limitato di istinti, … dall’altro, identificando l’archetipo con l’istinto, il numero degli istinti era diventato praticamente illimitato”[55]. Tant’è vero che, nella Introduzione al Commento al “Segreto del Fiore d’oro”, farà riferimento persino agli istinti dell’immaginazione, ossia alle costanti archetipiche inconsce che sono alla base di ogni rappresentazione o azione[56].
Per Jung, quindi, il termine ‘istinto’ ha assunto nel tempo diverse valenze. Egli si troverà spesso ad utilizzarlo, ad esempio, per identificare l’energia dinamica che si manifesta in una molteplicità di atteggiamenti. Per sottolineare la natura bipolare dei contenuti psichici, scrive: “Non esiste nell’uomo un solo istinto che non sia controbilanciato da un altro istinto”[57]. Pone l’esempio dell’istinto sessuale, di cui parlava Freud, che è controbilanciato nell’uomo dall’istinto di autoaffermazione, sul quale ha teorizzato Adler (per Jung entrambi sono caduti nell’errore dell’unilateralità)[58].
Jung critica Freud anche per la sua tendenza a sessualizzare ogni cosa; ad esempio, come si può limitare l’istinto religioso, presente in tutti i popoli, identificandolo soltanto come una rimozione della sessualità? Facendo ancora riferimento alla natura bipolare della psiche e criticando la visione freudiana dell’istinto sessuale, scrive: “sempre quando un istinto è stato sottovalutato, la conseguenza ne dev’essere una sua sopravvalutazione anormale”[59].
In Mysterium Coniunctionis, tornerà a parlare di istinto e religione come di due energie contrapposte e complementari. Nell’opera utilizza le metafore del vecchio Adamo, che corrisponderebbe all’aspetto più primitivo nell’uomo, e dell’Adamo caudato, legato alla sfera istintivo-animale, nel quale il primo troverebbe le proprie origini.Il secondo sembra ormai scomparso dalla coscienza umana, mentre il primo spesso appare ad essa come estraneo.Scrive:
“Per la psicologia analitica non è stata … una sorpresa da poco trovare tanto materiale arcaico nei prodotti dell’inconscio dell’uomo moderno, e non solo questo, ma anche ritrovarvi le oscurità inquietanti del mondo istintuale animale. Gli ‘istinti’ o le ‘pulsioni’ si possono certamente formulare in termini fisiologici o biologici, ma non è possibile toglierli di mezzo o imbrigliarli, perché sono al tempo stesso entità psichiche, che in quanto tali si manifestano in un mondo della fantasia loro specifico. Non si tratta solo di fenomeni fisiologici o univocamente biologici, ma al tempo stesso anche di immagini della fantasia di carattere simbolico o di contenuto significativo. L’istinto non s’impadronisce del proprio oggetto ciecamente e per caso, bensì secondo un certo ‘punto di vista’ o un’interpretazione psichica” [60].
Il “punto di vista” di cui parla Jung si esprime tramite la rappresentazione psichica (l’immagine), ma trova la sua origine nella fisiologia. Egli continua:
“Il mondo degli istinti che si presenta così straordinariamente all’uomo civile dalla mentalità razionalistica, si rivela – allo stadio primitivo – come un complesso gioco combinato di fatti fisiologici, tabù, riti, sistemi di classe e insegnamenti tribali che impongono per così dire a priori, ossia in modo preconscio, all’istinto una forma restrittiva, subordinandolo a mete più elevate. In condizioni naturali, all’assenza di limiti dell’istinto, al quale si attribuisce la volontà di soddisfare semplicemente sé stesso, si accompagna una limitazione spirituale che differenzia tale istinto e lo rende adatto ad applicazioni diverse”[61].
La religione, originariamente, rappresentava un sistema di regolazione psichica rispetto al dinamismo dell’istinto. Tra istinto e religione, infatti, si è creata una contrapposizione (ancora il tema della bipolarità della psiche), una frattura che fa in modo che si attui quel processo di maggiore ampliamento e differenziazione della vita psichica (creazione del simbolo). “Dato che tali movimenti si sono ripetuti infinite volte nel corso dello sviluppo millenario della coscienza, nell’intento di armonizzare gli opposti si sono prodotti anche costumi e riti corrispondenti”[62]. Dunque, la religione, che esprime l’aspetto spirituale della vita psichica, sembra essere diventata quel sistema psichico che dà forma all’istinto, che lo contiene tramite rappresentazioni e riti religiosi, e gli permette così di emergere[63] e modificarsi creativamente.
Qualche anno prima Jung aveva già parlato di religione osservandola, però, in relazione allo spirito[64]. In Fenomenologia dello spirito nella fiaba, citando anche il rischio di un’identificazione con questo aspetto, scriveva:
“All’essere spirituale è in primo luogo inerente un principio spontaneo di movimento e di attività, in secondo luogo la capacità di produrre liberamente immagini al di là della percezione dei sensi, in terzo luogo l’autonomia e sovrana manipolazione delle immagini stesse. Questa entità spirituale sta ‘di fronte’ all’uomo primitivo, ma con l’evoluzione entra nell’ambito della coscienza umana e diventa una funzione che le è sottoposta, onde pare si perda il suo originario carattere di autonomia. Quest’ultimo è mantenuto ancora soltanto dalle concezioni più conservatrici e precisamente dalle religioni. … Le religioni quindi devono sempre porre in risalto l’origine e l’originario carattere dello spirito, affinché l’uomo non dimentichi mai cosa egli immette nella sua sfera e di che riempie la sua coscienza … l’uomo è gravemente tentato di credersi il creatore dello spirito e il suo ‘possessore’. In realtà è il fenomeno primordiale dello spirito a possedere l’uomo e, proprio come il mondo fisico, esso è solo in apparenza il malleabile oggetto delle intenzioni umane, mentre di fatto vincola con mille lacci la libertà dell’uomo e diventa un’’idea forza’ ossessiva. Lo spirito minaccia l’uomo ingenuo di ‘inflazione’”[65].
Anche l’individuazione in alcuni punti della sua opera viene trattata da Jung come un istinto. Nel 1919 scrive che realizzare l’individuazione corrisponde al “Diventare un essere singolo e, intendendo noi per individualità la nostra più intima, ultima incomparabile e singolare peculiarità, diventare se stessi, attuare il proprio Sé, o realizzazione del Sé”[66]. Dunque, qui ed in altre opere, si percepisce un certo carattere di ineluttabilità, ‘obbligatorietà’ del processo, come per l’istinto, anche se nel 1934 chiarisce che “il processo di individuazione si sviluppa liberamente in circostanze naturali se da una valenza esterna non viene privato di una sua libertà”[67]. Nel 1952 parla specificatamente di ‘istinto’ che permette la realizzazione del Sé. Definisce il Sé come scopo della vita prodotto spontaneamente dall’inconscio, come realizzazione dell’uomo totale e della sua individualità. La “Forza motrice di questo processo è l’istinto che provvede affinché tutto quanto deve far parte di una vita individuale ne faccia effettivamente parte, sia con, sia senza il consenso del soggetto, sia che questo abbia, sia che non abbia coscienza di quanto sta avvenendo”[68]. Se vi è incoscienza però, chiarisce qualche riga di seguito, si rischia di divenire vittime, non artefici della propria individuazione, e cita la frase del Cristo che recita così: Se sai quello che fai, sei beato, ma se non sai quello che fai sei esecrando e un trasgressore della Legge[69].
Hillman, fondatore della psicologia archetipica, sulle orme di Jung avvicina le attività riflessiva, religiosa e spirituale, individuativa e creativa al concetto di ‘istinto’. Egli scrive:
“Jung considerò le attività sia della riflessione sia della religione (che a volte … chiama ‘spirito’, ‘sé’ e ‘creatività’) come istinti (…). In questo modo … mantiene tutti i cosiddetti eventi psichici superiori o sublimati in diretto contatto con i cosiddetti eventi psichici inferiori o animali. Sostenere che la vita mentale della riflessione e la vita spirituale della religione sono istinti significa riconoscere che una pulsione coatta opera tanto al livello della mente e dello spirito tanto a livello della fame e della collera. La discussione di Jung sull’istinto della riflessione (…), il quale, a suo parere, determina la ricchezza e il carattere essenziale della psiche, ha un chiaro parallelo nella descrizione di Konrad Lorenz delle reazioni di ‘fuga’ negli animali. Riflessione significa ripiegarsi dallo stimolo percettuale verso una immagine psichica è, cioè, ’volgersi all’interno’. Sostenere, come facciamo noi, che mente e spirito sono aspetti della natura istintuale significa sostenere che la loro essenzialità per la vita psicologica è pari a quella dei cosiddetti impulsi più organici e fisici, che si sono legati alla fisiologia e soggetti alle patologizzazioni tanto quanto qualunque altra configurazione istintuale”[70].
Hillman pone l’accento sulla possibilità che il termine ‘istinto’ offre, osservato secondo questa chiave di lettura, sulla strada dell’unità psicofisica. Egli teorizza infatti la ‘visione in trasparenza’ dei concetti elaborati in psicologia, che sono da considerare come metafore, modelli, utili nell’osservare la realtà psichica. Con questi presupposti non sembra più necessario, afferma, rispondere agli interrogativi classici sull’istinto, ad esempio quale ne sia il numero, le reciproche relazioni, il loro rapporto con le necessità fisiologiche omeostatiche, la loro filogenesi ed eredità, il loro valore per la sopravvivenza, la loro suscettibilità all’apprendimento…[71]. E conclude:
“Benché la psicologia non sia soddisfatta del concetto di istinto, soprattutto perché si pensa che esso implichi vitalismo e olismo, è meno scomodo conservare l’istinto che abbandonarlo. Con che cosa potremmo sostituirlo, infatti? E soprattutto quale altra parola rappresenta così bene la ‘psiche del corpo’ nel parlare comune e in psicoterapia? L’’istinto’ rappresenta il problematico corpo animale nel linguaggio concettuale, e le discussioni su di esso rappresentano la lotta con il corpo animale. Nella misura in cui vediamo l’istinto in termini meccanicistici, siamo dei cartesiani che scindono la coscienza dal corpo e considerano l’animale alla stregua di una macchina. L’accento messo da Adolf Portman sulla natura non coattiva dell’istinto (a differenza di Lorenz e dei behavioristi più meccanicisti e deterministi nella visione del comportamento animale) riflette una coscienza in cui al corpo viene offerta una prospettiva più libera. Infine, negare l’’istinto’ significa anche restringere una grande porzione di storia della psicologia per mezzo della quale possiamo esaminare le variazioni intervenute nella riflessione della psiche sul proprio corpo”[72].
5 - L’archetipo. Il punto di vista biologico: physis e psyché
Il termine archetipo compare nelle opere di Jung per la prima volta nel 1919, in Istinto e inconscio. Nel 1912, per indicare la medesima realtà, aveva utilizzato il termineUrbild o urtümlisches Bild, ‘immagine primordiale’[73], o ‘arcaica’, espressione ispiratagli da Jacob Burckhardt[74].
La Jacobi scrive che, per immagini primordiali, egli intendeva miti, leggende, fiabe che, attraverso le immagini, erano in grado di descrivere motivi ricorrenti ed universali del comportamento umano che non sempre potevano essere spiegati con i flussi migratori delle popolazioni da un territorio ad un altro. Spesso infatti l’unica spiegazione era una ricomparsa ‘autoctona’ al di là di ogni logica spazio-temporale[75].
Dunque, il concetto di archetipo è intimamente legato a quello di inconscio collettivo, del quale Jung fu il primo a parlare, nonostante si facesse riferimento all’esistenza di un inconscio transindividuale o collettivo già nelle dissertazioni filosofiche, fisiologiche e psicologiche del tardo Ottocento. Ricordiamo ad esempio i lavori di Fouliée[76], Hall[77], Semon[78], Ribot. Scrive Shamdasani: “Il suo inconscio collettivo si era costituito collettivamente grazie al collegamento delle varie concezioni transindividuali o collettive dell’inconscio che erano state proposte alla fine del XIX secolo; rappresenta il culmine, piuttosto che l’inaugurazione, delle concezioni collettive dell’inconscio”[79]. Nelle conferenze tenute a Londra nel 1924, su Psicologia analitica ed educazione, Jung distingueva un inconscio personale[80], nel quale confluiscono la maggior parte delle primissime impressioni infantili, che andranno a costituire i ‘complessi a tonalità affettiva’, dall’inconscio collettivo[81] nel quale si trovano anche contenuti che possono sembrare estranei all’individuo, e che spesso quasi non serbano traccia di carattere personale[82]. Spiega:
“’Collettivo perché non si tratta di un’acquisizione individuale, bensì del funzionamento della struttura cerebrale ereditata, che nei suoi tratti generali è la stessa presso tutti gli uomini, sotto certi riguardi perfino presso tutti i mammiferi. Il cervello ereditato è il risultato della vita ancestrale. Esso è composto dei depositi e delle corrispondenze strutturali di quelle attività psichiche che furono ripetute infinite volte nella vita degli antenati”[83].
E nell’inconscio collettivo sono le immagini primordiali, o archetipi.Non si tratta di ‘idee ereditate’, chiarisce in seguito Jung[84], ma di modi di essere ereditati della funzione psichica, proprio come è innato il modo in cui il pulcino esce dall’uovo, gli uccelli costruiscono il nido, alcune vespe trafiggono con il pungiglione il ganglio motorio del bruco e le anguille trovano la strada per le Bermuda. In questa accezione del termine, l’archetipo è un pattern of behaviour. “Questo aspetto dell’archetipo è quello biologico, di cui si occupa la psicologia scientifica”[85].
Sia la Jacobi sia Shamdasani citano l’opera del biologo Portman che, nel 1949, tenne una conferenza all’Eranos Tagug su Il mitico nella ricerca naturale, nella quale si mostrò molto interessato all’opera di Jung ed in particolare alla sua concezione dell’archetipo. Portman sosteneva che il concetto junghiano di archetipo attribuiva nuovo valore all’idea dei pensieri elementari dell’antropologo tedesco Bastian[86]. Jung stesso dichiarò di aver ereditato dalle teorizzazioni dell’antropologo la sua concezione di archetipo edi essere giunto così a spiegare l‘universalità dei motivi mitici con l’idea di una fonte intrapsichica comune a tutto il genere umano[87]. Portmann mise anche in evidenza che nell’idea di archetipo convergevano concezioni tra di esse differenti: “da un lato erano considerati strutture naturali ereditate che determinavano l’esperienza del mondo; dall’altro erano ritenuti usanze acquisite in modi diversi dai primi contatti sociali e che erano state rafforzate da secoli di tradizione. Infine erano concepiti come sviluppi storici e tradizionali che erano diventati un possesso dell’inconscio collettivo ereditato in modo ignoto”[88]. Portman apprezzava e condivideva il sapore lamarkiano[89] di quest’ultimo modo di vedere.
Successivamente in una convegno, gli atti del quale erano dedicati al settantacinquesimo compleanno di Jung, nel suo scritto Il problema dell’immagine primordiale in una prospettiva biologica, osservava che
“La ricerca biologica sul sistema nervoso centrale degli animali rivela strutture che sono ordinate secondo una forma specifica e possono provocare azioni tipiche della specie … Molti hanno disimparato a esperire consciamente ciò che vi è di meraviglioso in ogni organizzazione vivente; perciò si sorprendono che anche la modalità di esperienza interna di un animale sia predeterminata, ordinata e data da strutture fisse … Questo ordinamento dell’interiorità animale è dominato da quell’elemento della forma che la psicologia trova operante nel mondo degli archetipi. L’intero rituale degli animali superiori possiede in sommo grado tale impronta archetipica. Al biologo appare come una notevole organizzazione della vita pulsionale, che assicura il vivere insieme sovraindividuale dei membri di una specie, sincronizza l’umore dei partner e impedisce ai rivali di annientare la specie distruggendosi l’un l’altro in combattimento. Il comportamento rituale appare come l’ordinamento sovraindividuale valido per la conservazione della specie”[90].
La Jacobi cita anche le concezioni dello zoologo Heini Hediger il quale, in un suo importante studio, tentò di mostrare l’azione degli “archetipi” nel comportamento istintivo degli animali. Egli riteneva che l’animale non può, a meno che influenzato da una forza esterna, abbandonare la sua aderenza a modi di comportamento appartenenti alla propria specie poiché il suo ordinamento biologico non gli permette nessuna libertà; l’uomo invece, con la relativa libertà che gli è data dalla coscienza, può scostarsi volontariamente dai modelli archetipici, esponendosi al doppio pericolo della hybris o dell’isolamento. Egli, infatti, allontanandosi dal nucleo originario archetipico, si separa anche dalle sue radici specifiche e storiche[91].
Anche l’etologo Konrad Lorenz e lo zoologoFriedrich Alverdes, tra gli altri, indicarono la psicologia junghiana come possibile fondamento per una visione unitaria della psicologia umana e animale.
Shamdasani ricorda che più volte Lorenz argomentò sul rapporto tra la sua concezione di istinto e l’archetipo di Jung. Egli, insieme a Nikolaas Tinbergen, studiò i modelli di comportamento delle specie animali, reintroducendo il concetto tanto controverso e poco amato di istinto. Le cosiddette regolarità dei modelli di comportamento per gli studiosi non potevano essere spiegate soltanto come risultati di un apprendimento, ma dovevano esistere meccanismi innati di scatenamento che entravano in azione nell’incontro con un appropriato stimolo ambientale[92]. Per Lorenz, Jung proponeva l’idea che “gli organismi nascono al mondo con un’eredità specie-specifica di immagini di oggetti specifici e biologicamente importanti, come i genitori, i partner sessuali, la preda e così via”[93].
“Secondo Lorenz, Jung considerava quegli archetipi immagini ricordate di qualche sorta che si erano differenziate nella storia dell’evoluzione, sebbene non in un senso ingenuamente lamarkiano. Quando un organismo reagiva in modo appropriato ad una situazione o a un oggetto senza averne avuto un’esperienza precedente, ciò rappresentava ‘una risposta a un’immagine ricordata specie-specifica’ che dev’essere indubbiamente considerata una Gestalt olistica”[94].
Anche la Jacobi cita Lorenz per i suoi schemi innati, ossia quelle forme di reazione innata a situazioni stimolo caratteristiche, indipendenti dall’esperienza. In essi, scrive Lorenz, “si può osservare una somiglianza formale con determinati rapporti umani basati su schemi innati anche nel comportamento animale”[95]. Egli fa riferimento non ad immagini innate, ma a possibilità preformate del suo sorgere poiché è “l’esperienza a riempire la forma di materia, e inoltre che certi modi ben determinati di reazione dell’uomo non possono essere spiegati sulla base dell’adattamento filogenetico e dell’utilità per la conservazione della specie, ma sono espressioni immediate di leggi che appartengono ad ogni vivente in quanto tale … le quali sembrano date a priori”[96]. Nel 1973 Lorenz dichiarò a Richard Evans di essere convinto del fatto che gli esseri umani possedessero reazioni innate generate da un cosiddetto meccanismo innato di scatenamento che, scrisse, “combinandosi con la facoltà umana di visualizzare-sognare una situazione, risulta in reazioni fenomeniche che sono più o meno identiche al concetto di archetipo di Jung. Penso che gli archetipi siano dei meccanismi innati di scatenamento investiti nella visualizzazione, nella fantasia, dell’individuo”[97].
Alverdes nel 1937 pubblicò un articolo, L’efficacia degli archetipi nelle azioni istintive degli animali,che inviò anche a Jung il quale lo ritenne un ‘interessante articolo’. Egli si rammaricava del fatto che la psicologia non avesse spazio nel campo della biologia che rimaneva, così, solo un ‘torso acefalo’. Sosteneva invece che ogni organismo vivente è una totalità integrata di aspetti psichici e fisiologici. Il suo intento era quello di valorizzare le ricerche di Jung nel campo della psicologia animale. L’‘archetipo’ di Jung veniva definito come una disposizione innata per forme specifiche di comportamento, comune sia agli uomini sia agli animali[98].
“Secondo Alverdes, Jung sosteneva che le azioni umane fossero proiezioni e simboli di stati psichici interni. Alverdes a sua volta sosteneva che i modelli di comportamento degli animali potessero essere considerati allo stesso modo e che anche questi ultimi possedessero degli archetipi … Egli concludeva che gli archetipi di Jung potevano formare la base per una sintesi della psicologia umana e animale”[99].
Alverdes, infatti, chiamava archetipo della patria, della casa parentale, dell’accoppiamento …, forme dell’esperienza tipiche tanto del mondo animale quanto di quello umano[100]. Conclude la Jacobi: “Essi rappresentano determinate configurazioni dell’essere, dell’agire e del reagire che sono strutturalmente impresse nel loro ‘modello originario’ ma non nelle loro singole manifestazioni”[101].
La Jacobi cita anche alcuni studi sulla psicologia infantile di Spitz, Wolf e Kaila che possono avvalorare la teoria degli archetipi. Gli autori affermano che il bambino dai tre ai sei mesi risponde col sorriso alla visione del volto umano, che scatena in loro ‘reazioni archetipiche innate’. Anche il lavoro della Kellogg[102] sugli scarabocchi di bambini tra i due ed i quattro anni risulta molto interessante. Queste ricerche sembrano essere in linea con le riflessioni di Jung che non condivideva l’opinione che la psiche del fanciullo alla nascita fosse una tabula rasa. Egli riteneva che il bambino nascesse con un cervello differenziato, ereditariamente predeterminato chereagisceagli stimoli provenienti dall’esternoattraverso disposizioni specifiche ereditariamente trasmesse: istinti e archetipi.Per Jung “Questi ultimi sono le condizioni formali a priori dell’appercezione, fondate sugli istinti”[103]. E continua: “Tutti quei fattori, quindi, che erano essenziali ai nostri antenati vicini e lontani, saranno essenziali anche a noi, perché corrispondono al sistema organico ereditato”[104].
Va chiarito però che, ad uno stadio infantile o primitivo dello sviluppo, la sfera fisica e quella psichica sembrano ancora fuse tra loro[105], mentre con l’evoluzione della personalità si può osservare che manifestano presto un certo parallelismo[106].Jung esprime questo concetto nel seguente modo:
“Come il corpo vivente con le sue caratteristiche particolari è un sistema di funzioni per l’adattamento alle condizioni ambientali, così anche la psiche deve presentare organi o sistemi funzionali che corrispondono a regolari eventi fisici. Con ciò non intendo le funzioni dei sensi dipendenti dagli organi, ma piuttosto una sorta di fenomeni psichici paralleli alle regolarità fisiche”[107].
Tali fenomeni sono gli archetipi, ereditati, scrive la Jacobi,
“solo nel senso che la struttura della psiche, così com’è, è un’eredità umana universale e porta in sé la capacità di esprimersi in determinate forme specifiche”[108].
Molti hanno criticato Jung a proposito della sua concezione sull’ereditarietà degli archetipi, e per il fatto che egli tentasse di dimostrare tale concetto per analogia e non per mezzo di prove, anche se egli stesso affermò che per gli scopi dello psicologo non era così importante se gli archetipi fossero “trasmessi per tradizione o migrazione o ereditarietà”[109]. A Jung probabilmente era sufficiente la dimostrazione empirica della loro esistenza, attraverso il lavoro con i pazienti, i viaggi e le sue esperienze di vita.
È importante citare anche i suoi discorsi sulla sincronicità[110] che, come fa notare la Jacobi, attribuisce alle analogie di Jung un valore maggiore. La sincronicità è un fenomeno che si verifica in quel territorio periferico, al limite tra conscio ed inconscio[111], e si manifesta sia nella propria interiorità sia nel mondo esterno contemporaneamente, collegabili da un comune senso e significato. Come scrive la Von Franz, nella sincronicità un evento o un oggetto esterno si comporta proprio come la mia psiche interiore[112].
Con la sincronicità, scrive Jung: “si aggiunge un quarto alla triade spazio, tempo, causalità”[113]. La sua natura è acausalecome le circostanze che vengono a crearsi quando si verificano fenomeni che hanno la caratteristica della sincronicità. Si tratta di una coincidenza temporale, un parallelismo tra eventi caratterizzati da contenuti identici o simili.
Il parallelismo del quale si parlava prima, della sfera fisica con quella psichica, quindi, nell’ottica della sincronicità permette di considerare physis e psyché, la sfera biologica e quella psichica, come due fattori tra di essi correlati[114]. Jung scrive: “La sincronicità possiede proprietà di cui bisogna tenere possibilmente conto per chiarire il problema anima-corpo. È soprattutto il fatto dell’ordine acausale o meglio, dell’ordinamento significativo, che potrebbe gettar luce sul parallelismo psicofisico”[115].
E questo ordinamento acausale, che genera simultaneità dei processi psichici e fisici,è dato dalla struttura archetipica dell’inconscio collettivo, dall’archetipo, e più precisamente da ciò che Jung definisce il suo aspetto “trasgressivo”[116].
“Mediante la sua aumentata carica energetica, ovvero il suo aumentato effetto numinoso, esso evoca in colui che lo vive quell’emotività rafforzata che costituisce il presupposto per l’emergere e per l’esperienza dei fenomeni sincronici”[117].
6 – Il punto di vista filosofico: archetipo ed immagini archetipiche
Jung cita spesso, nelle sue riflessioni, concetti tratti dall’opera di alcuni filosofi, come Platone e Kant, che utilizzò per definire sempre meglio il suo personale pensiero. Ad esempio, avvicinò un concetto chiave kantiano, il noumeno, a diversi contenuti della sua teoria. Scrive nel 1932 ad August Vetter:
“In un certo senso potrei dire dell’inconscio collettivo esattamente lo stesso che Kant disse della cosa in sé, cioè che è un concetto limite meramente negativo, il che non può impedirci di formulare… delle ipotesi su di esso, all’incirca come si potrebbe fare se fosse un oggetto dell’esperienza umana”[118].
Le tematiche dell’inconscio, dell’inconscio collettivo, del Sé ed anche dell’archetipo in seguito vennero tutte avvicinate all’idea di noumeno kantiana[119].
Jung, dunque, spesso si riferì agli archetipi definendoli strutture mentali di natura astratta, impossibili da sperimentare direttamente[120]. Nel 1918 li aveva collegati alle categorie kantiane, definendoli condizioni a priori della produzione di fantasie. Nel 1919 li descriveva come “forme tipiche della comprensione, e dovunque si tratta di percezioni uniformi che si ripresentano regolarmente si tratta di un archetipo”[121]. In Tipi psicologici (1921) affermava che “ciò che Kant ha dimostrato per il pensiero logico, vale in senso ancora più ampio per la psiche”[122]. Come la mente, anche la psiche non si pone come una tabula rasa ma contiene degli a priori, gli archetipi, antecedenti dell’esperienza, della quale sono il presupposto[123]. Questi a priori sono le immagini primordiali, scrive Jung, che hanno la caratteristica di essere impersonali e riconoscibili dalla loro qualità mitologica, a differenza dell’idea che viene intesa come il significato dell’immagine primordiale. L’idea per Platone costituiva l’immagine primordiale della cosa. Per Kant era un concetto razionale il cui oggetto non si trova nell’esperienza. Nella Critica della ragion pura affermava che l’idea di Platone è l’archetipo della cosa in sé, a differenza delle categorie che sono mere chiavi per le esperienze possibili. Shamdasani reputa verosimile che Jung abbia potuto prendere spunto da questa pagina di Kant per assimilare nella sua concezione di immagine primordiale entrambii concetti[124].
Il concetto di êidos di Platone può aiutarci ad introdurre la distinzione operata da Jung tra archetipi ed immagini archetipiche. Già nel 1929 egli parlava dell’archetipo in generale e della sua rappresentazione particolare in termini che riecheggiavano Platone. Scriveva:
“Non significa niente che il ‘gioiello’ sia in un caso un anello d’oro, in un altro una corona, in un altro ancora una perla, o un intero tesoro. L’essenziale è l’idea di un oggetto preziosissimo e quasi irraggiungibile, mentre è indifferente il nome con cui lo si designa localmente. E l’elemento psicologicamente essenziale è che anche i più remoti motivi e simboli mitologici possono risorgere, autoctoni in ogni epoca, in sogni, fantasie e in stati psichici eccezionali; motivi e simboli che spesso riemergono in apparenza come risultato di influenze, tradizioni e stimoli individuali, ma più spesso ancora anche senza di questi. Queste ‘immagini originarie’ o ‘ archetipi’, come le ho chiamate, appartengono al nucleo della psiche inconscia e non possono essere spiegate in base a un’acquisizione personale. Il loro insieme forma quello strato psichico che ho definito inconscio collettivo”[125].
Queste parole già contengono la differenziazione tra l’archetipo in sé (idea irraggiungibile di gioiello) e l’immagine archetipica (in un caso un anello d’oro, in un altro una corona, in un altro ancora una perla, o un intero tesoro … il nome con cui lo si designa localmente) anche se per la prima volta nel 1946, in Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, espresse tale distinzione. Scriverà:
“Le rappresentazioni archetipiche alle quali fa da tramite il nostro inconscio non vanno scambiate con l’’archetipo in sé’. Sono configurazioni estremamente varie che rimandano a una forma fondamentale di per sé irrappresentabile … caratterizzata da certi elementi formali e da un certo significato di principio che però si lasciano afferrare soltanto approssimativamente. … non sembra suscettibile di coscienza. Se ardisco avanzare questa ipotesi è perché tutto ciò che di archetipico viene percepito dalla coscienza sembra rappresentare variazioni su un tema fondamentale”[126]. “Qualunque cosa asseriamo circa gli archetipi, si tratta di dimostrazioni o concretizzazioni che appartengono alla coscienza … – poiché l’archetipo – è di per sé irrappresentabile, ma ha effetti – le rappresentazioni archetipiche – che rendono possibili dimostrazioni verificabili”[127].
Dunque, l’archetipo come tale (non percepibile) trascenderebbe (nel senso di andare al di là) la sfera psichica, sarebbe una realtà psicoide, che esiste anteriormente a ogni esperienza cosciente, come l’idea platonica[128]. Scrive Jung:
“Nessun archetipo è riducibile a semplici formule. L’archetipo è come un vaso che non si può svuotare né riempire mai completamente. In sé, esiste solo in potenza, e quando prende forma in un determinata materia, non è più lo stesso di prima. Esso persiste attraverso i millenni ed esige tuttavia sempre nuove interpretazioni”[129].
L’archetipo quindi trova la sua manifestazione nell’immagine archetipica che si costella con le sue varianti in ogni variante soggettiva[130]. Potremmo definire questa realtà come eidôlon (apparizione). È l’êidos che prende forma e diviene contenutisticamente determinato, poiché arricchito dall’esperienza cosciente[131].
Scrisse Paul Schmitt nel 1945, in Archetypisches bei Augustin und Goethe, un numero speciale per il settantesimo compleanno di Jung:
“Il primo elemento, ‘arché’, significa ‘inizio, origine, causa, fondamento e principio’; ma significa anche ‘posizione di capo, supremazia e governo’ (quindi una specie di ‘dominante’); il secondo elemento, ‘typos’, significa ‘colpo’ e ciò che con esso si produce, ‘il conio di una moneta (…) forma, immagine, copia, prototipo, modello, ordine e norma’ (…) in senso figurato, più moderno: ‘campione, forma fondamentale, forma primordiale’ (che sta ‘alla base’ di una serie di individui umani, animali, vegetali ‘simili’)”[132]. “In tali concetti sono compresi tanto l’’impressione’ da parte delle esperienze tipiche costantemente ricorrenti, quanto il riferimento a ‘forze’ e ‘tendenze’ che empiricamente conducono alla ripetizione di esperienze e forme sempre uguali”[133].
Essi dimostrano che
“nel regno veramente proteiforme della psiche vi è di fatto un principio formativo – funzioni dominanti, ovvero gli archetipi – e che in tali regioni si può parlare dell’azione di un fattore non formato e di un fattore formante (forma) su un elemento formato (formatum) e che tale azione avviene a ‘livelli’ diversi”[134].
7 – Complesso e archetipo
Dunque, archetipi come pattern of behaviour, come forme pure a priori, come êidos inconoscibili tranne che nelle loro manifestazioni[135]. Ma, scrive Jung,
“Questo scenario cambia totalmente non appena lo si guardi dall’interno, cioè nello spazio della psiche soggettiva. Qui l’archetipo si mostra nel suo aspetto numinoso, si rivela cioè un’esperienza di fondamentale importanza. Quando si riveste di simboli adeguati, cosa che non sempre accade, crea nel soggetto uno strato di profonda emozione, le cui conseguenze possono essere incalcolabili”[136].
È un’emozione che richiama le esperienze religiose, di incontro con l’alterità[137], con il sacro, per cui Jung, riprendendo il termine da Rudolf Otto, parla di numinosum, “un’essenza o energia dinamica non originata da alcun atto arbitrario della volontà”[138]. In senso figurato, scriveva Otto, si tratta dell’effetto che il ‘gesto’ della divinità provoca in chi la osserva[139]. È un’energia, continua Jung, che “afferra e domina il soggetto umano, che ne è sempre la vittima piuttosto che il creatore. Il numinosum, qualunque ne sia la causa, è una condizione del soggetto indipendente dalla sua volontà”[140]. Jung cita anche Paracelso, medico, alchimista e astrologo svizzero del XV secolo, che parlava di lumen naturae (che si apprenderebbe attraverso i sogni). Egli paragonava la psiche oscura, l’inconscio,al cielo notturno in cui i pianeti e le costellazioni di stelle fisse sono gli archetipi nella loro luminosità e numinosità[141].
Jung definì gli archetipi come dominanti dell’inconscio collettivo, ‘punti nodali’ forniti di una particolare carica energetica[142].Sulle orme di Janet, parlava di abbaissement du niveau mental, della riduzione dell’intensità di coscienza che permetterebbe la produzione di manifestazioni individuali di strutture archetipiche. L’archetipo in sé, come sappiamo, appartiene all’inconscio collettivo, e quindi è inconoscibile. L’interpretazione che se ne dà non sarà mai esaustiva ma, anzi, si baserà sul ‘come se…’. In sostanza, scrive Jung, “si tratta … di circoscrivere e caratterizzare approssimativamente un ‘nucleo di significato’ inconscio. Il senso di questo nucleo non è mai stato né sarà mai cosciente”[143]. E quindi esso è numinoso poiché si manifesta come una realtà ‘altra’ rispetto a quella della coscienza, carica energeticamente ed affettivamente. Continua Jung:
“Che si parli di sole, identificandolo con il leone, con il re, con il tesoro custodito dal drago, con la vitalità o la salute degli uomini, non si tratterà né dell’una né dell’altra cosa, bensì di un terzo sconosciuto che in tutte quelle similitudini può trovare un’espressione più o meno adeguata, ma che – a dispetto dell’intelletto – rimane fatalmente ignoto e indefinibile”[144].
In una lettera al prof. Schmid, nel 1958, Jung definì un collegamento importante tra l’archetipo e la possibilità di esperire empiricamente i contenuti delle rappresentazioni che da esso si originano, che possono essere personali e collettivi. Egli scriveva:
“l’archetipo rappresenta una configurazione di per sé imperscrutabile, che si può constatare empiricamente in svariati modi. L’archetipo della madre, per esempio, può manifestarsi in un numero impensabile di forme, in cui però continua a sussistere l’unica caratteristica comune dell’idea di madre. In altri casi si tratta invece del ‘padre’. L’archetipo è sempre di natura oggettiva, in quanto schema concettuale esistente a priori e comunque identico a se stesso. Esso può anche comparire come immagine della madre concreta, ma può anche essere una Sophia o la materia che, come dice il nome, contiene l’idea di madre per quanto si tratti di un concetto per così dire scientifico”[145].
L’idea di madre, o di padre di cui parlava Jung rappresenta quel nucleo di significato comune a tutte le rappresentazioni che lo riguardano, che siano elaborazioni della filogenesi (per esempio una Sophia…) o che siano relative alle figure di riferimento dell’esperienza concreta dell’individuo, all’ontogenesi (per esempio la madre concreta). Questo secondo caso implica il concetto di ‘complesso’.
A questo punto sembra opportuno soffermarsi brevemente sul concetto di complesso, ed in cosa esso consista. Nelle prime ricerche sulle associazioni verbali veniva registrata come errore la reazione a quello che Jung successivamente definì complesso a tonalità affettiva[146]. Egli elaborò la teoria secondo cui i complessi sono normali fenomeni vitali[147], appartengono alla costituzione psichica dell’individuo e formano la struttura della psiche inconscia[148]. Ogni complesso rappresenta una particolare situazione psichica incompatibile con l’abituale atteggiamento cosciente poiché trova la sua origine in esperienze ed impressioni penose e spiacevoli[149]. Possiede una certa autonomia che lo fa dipendere soltanto in maniera limitata dalle disposizioni della coscienza. Si comporta, rispetto alla coscienza, come un corpus alienum animato[150].
Nel 1928 Jung affermò che un complesso è costituito da un elemento nucleare e da associazioni secondarie che si costellano intorno ad esso. L’elemento centrale, caratterizzato dal cosiddetto tono emotivo, dalla tonalità affettiva, è formato da una componente determinata dall’esperienza (relazione con l’ambiente) e da una componente determinata dalla disposizione innata[151].
Dieckmann nel suo lavoro sui complessi fa notare che Jung, nella sua introduzione al libro della Jacobi, precisa che i complessi poggiano su ciò che chiama fondamenta tipiche, caratterizzate da una propria prontezza emotiva[152]. E scrive la Jacobi stessa, supportata da più di uno scritto di Jung[153]:
“Supponiamo che un tale ‘nucleo centrale’ nell’inconscio dell’individuo sia un’immagine del ‘paterno’ come per esempio il dio greco Zeus: ci è lecito parlare di ‘complesso paterno’ in costui solo se l’urto tra la realtà e la natura (disposizione) sensibile dell’individuo sotto questo aspetto, quindi l’urto fra la particolare situazione interna e quella esterna, fa passare quel nucleo centrale, mediante un’accresciuta ‘carica’ emotiva, dalla qualità di disturbo solo ‘potenziale’, a una qualità di disturbo ‘attuale’[154].
E aggiunge, qualche pagina più avanti:
“Quando un complesso viene ‘spogliato’ dai contenuti a esso sovrapposti dalla vita personale dell’individuo, come avviene per esempio nel corso del lavoro analitico, che rende cosciente questo materiale conflittuale rimosso, il vero nucleo del complesso, il ‘punto nodale’ nell’inconscio collettivo, viene liberato dai contenuti dai quali era rimasto avvolto … in tal caso l’individuo si trova messo a confronto non più, per esempio con la propria madre ma con l’archetipo del ‘materno’, non con il singolo problema personale della realtà concreta di sua madre, ma con il problema umano universale, cioè impersonale, del rapporto di ogni uomo col fondo materno primordiale presente in lui”[155].
Jung stesso, in una lettera al dott. Flournoy, scrisse che è a Freud che “va l’onore di aver scoperto il primo archetipo, il complesso di Edipo. Si tratta di un motivo di natura tanto mitologica quanto psicologica. Naturalmente si tratta di un singolo archetipo, cioè di quello che rappresenta la relazione tra figlio e genitori. Tuttavia … Vi è una quantità di situazioni tipiche, tutte espresse in precise forme strutturali innate”[156].
Si può quindi concludere che, nella visione junghiana, dietro (o dentro) ogni complesso esiste un nucleo di significato che appartiene ad una realtà percepita come altra, perché inaccessibile alla coscienza, che è possibile soltanto circoscrivere e caratterizzare approssimativamente. È numinoso e, come se fosse un Dio, determina nel soggetto uno strato di profonda emozione (caratterizzato dal cosiddetto tono emotivo, dalla tonalità affettiva). Esso è l’archetipo.
In Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche Jung approfondì il rapporto tra il complesso a tonalità affettiva, dietro il quale, abbiamo visto, si cela sempre un archetipo, e la coscienza. Esso, se non entra in contatto con la coscienza, mantiene la sua forma originaria, il suocarattere coattivo, non influenzabile, di automatismo. I complessi assumono, in proporzione della loro distanza dalla coscienza, un carattere arcaico-mitologico e quindi una numinosità, evidente nelle dissociazioni schizofreniche in cui la numinosità è completamente sottratta all’influenza cosciente, e il soggetto si trova a vivere uno stato di emotività privo di volontà[157]. Al contrario, i complessi divenuti coscienti “possono essere radicalmente trasformati. Depongono la loro corteccia mitologica e, entrando nel processo di adattamento che si verifica nella coscienza, si razionalizzano, tanto che diventa possibile un confronto dialettico”[158].
Whitmont, riprendendo Jung, afferma che l’archetipo predispone alla realizzazione di un complesso. Egli distingue l’involucro di un complesso (esperienza personale) dal suo nucleo archetipico e osserva che dietro la madre personale e le reazioni emotive al tipo di cura materna ricevuta, si trova il nucleo archetipico della Grande Madre o della Grande Dea[159]. Si potrebbe definire il complesso, quindi, come il risultato dell’ingresso dell’archetipo nella vita personale di un individuo e della relazione con la costellazione delle esperienze, e delle relative emozioni, provenienti dalla vita individuale. L’autore porta anche un esempio di come l’archetipo possa influenzare la vita individuale di un soggetto. Racconta il caso di un paziente, il cui padre morì quando aveva tre anni, che sviluppò un’idealizzazione della figura dell’uomo forte e deciso; questa idealizzazione spostò quelle stesse qualità su un piano ‘troppo alto’ perché il paziente le potesse ‘raggiungere’ ed integrare. Dunque, una figura genitoriale che stenta ad entrare nella sfera delle esperienze personali per via, ad esempio, della sua assenza fisica, potrebbe acquisire una forte caratterizzazione archetipica che a sua volta darebbe a quella figura una numinosità forte e particolare. Il soggetto rimarrebbe più coinvolto dalla sfera archetipica che da quella dei complessi personali, la quale eserciterebbe una sorta di fascino nei confronti del figlio o della figlia, che potrebbe avere così una certa difficoltà nel tentativo di integrare le caratteristiche psichiche di quel genitore nella propria personalità[160].
È interessante osservare come Hillman, basandosi sulle teorizzazioni di Jung, abbia esposto in maniera semplice e chiara la relazione tra complesso e archetipo. Va precisato che per l’autore “la metafora del mito è il modo giusto di parlare degli archetipi, perché essi, come gli Dei, non stanno mai immobili. Come gli Dei, non possono essere definiti se non attraverso e con le loro reciproche complicazioni”[161]. Hillman quindi utilizza indifferentemente il termine archetipo e il termine Dio, e scrive:
“…la psicologia archetipica situa la sua idea della psicopatologia in una serie di gusci, l’uno interno all’altro: dentro l’afflizione c’è un complesso, dentro il complesso un archetipo, il quale a sua volta rimanda a un Dio. Le afflizioni indicano gli Dei; gli Dei ci raggiungono attraverso le afflizioni. Le parole di Jung – ‘gli dèi sono diventati malattie; Zeus non regna più sull’Olimpo ma sul plesso solare e produce curiosi esemplari per il gabinetto del medico’ – vogliono dire che gli Dei, così come nella tragedia greca, usano i sintomi per farsi riconoscere dall’uomo”[162].
Senza scomodare ipotesi metafisiche, potremmo interpretare il Dio e l’archetipo di Hillman come archetipo ed immagine archetipica. Egli stesso, infatti, citando H.D.F.Kitto, scrive che gli dèi non sono mai trascendentali, esterni al nostro universo, sono come una forza dentro di noi, come un istinto divino.
“Sono le fonti stesse delle nostre azioni e delle nostre omissioni, presenti, secondo Kerényi, anche senza essere invocati o glorificati. Per trovarli noi guardiamo ai nostri complessi, riconoscendo in ciascuno il suo potere archetipico. Perché, come dice Jung,: ‘non è affatto indifferente chiamare una certa cosa mania oppure dio. Servire una mania è odioso e indecoroso, ma servire un dio è cosa ricca di significato…”[163].
8 – Istinto e archetipo: la metafora dello spettro della luce
Nel 1919 Jung definisce l’immagine originaria, l’archetipo, come intuizione[164] che l’istinto ha di se stesso o comeautoraffigurazione dell’istinto.
Fa un parallelo tra la coscienza, che attribuisce forma e determinatezza all’azione, e l’inconscio che, attraverso l’archetipo,condiziona la forma e la determinatezza dell’istinto. Tanto è raffinato l’istinto quanto l’intuizione (l’archetipo) che ne è causa attuativa, e per analogia parla di come sia raffinato l’atto riproduttivo dellafarfalla della iucca che deve avere necessariamente in sé l’immagine della situazione nella quale l’istinto viene a manifestarsi, poiché compie un solo atto riproduttivo nel corso della sua vita nel quale esegue complicate operazioni che implicanouna dettagliata conoscenza del fiore e della sua struttura[165]. Per Jung
“L’inconscio collettivo consiste nella somma degli istinti e dei correlati, gli archetipi. Come l’uomo possiede degli istinti, così possiede anche le immagini originarie. Le prove di quest’affermazione sono offerte in primo luogo dalla psicopatologia di quei disturbi mentali nei quali erompe l’inconscio collettivo. Questo accade per esempio nella schizofrenia. Qui assistiamo spesso all’emergere d’impulsi associati con immagini inconfondibilmente mitologiche”[166].
E continua:
“A mio parere è impossibile dire che cosa è il ‘prius’, se la percezione intuitiva o l’impulso ad agire. Mi sembra che siano una medesima cosa, una medesima attività vitale, che siamo costretti a pensare smembrata in concetti soltanto per poterla meglio comprendere”[167].
Dunque, già nel 1919 Jung individuava un intimo legame tra istinto ed archetipo, una sinergia che lo porterà ad identificarli, molti anni più tardi, come un’unica realtà. In Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche scriverà che gli archetipi, come gl’istinti, intervengono nel regolare, modificare e motivare nella configurazione i contenuti della coscienza.
Ipotizza quindi una stretta correlazione, se non un’identità, tra i due, tra le tipiche immagini di situazione che emergono dai principi formali collettivi e le forme istintuali, ossia i modelli di comportamento. E confessa di non aver trovato nessun argomento che contraddica seriamente questa possibilità[168].
Spiega però che questa loro identità è data dall’essere parte di un’unica realtà come, potremmo dire, le due facce di un Giano bifronte: l’una l’opposto dell’altra. Scrive:
“Archetipo e istinto formano i massimi opposti pensabili, e lo si può costatare facilmente paragonando un uomo dominato dall’istinto con un uomo in preda allo spirito. Ma come tra tutti gli elementi contrari sussiste un rapporto così stretto che non è possibile né trovare né pensare una posizione senza il suo correlativo negativo… I contrari sono caratteristiche estreme di uno stato, ed è grazie ad esse che tale stato può essere percepito come reale, giacché formano un potenziale. La psiche è composta di eventi la cui energia può scaturire dall’equilibrio di opposti diversissimi”[169].
Dunque, da questo punto di vista i processi psichici appaiono equilibri energetici tra spirito e istinto.
In un primo momento, scrive Jung, è assolutamente impossibile discernere se un evento può essere definito spirituale o istintuale poiché si tratta di unavalutazione o interpretazione che dipende dal punto di vista della coscienza e dallo stato in cui essa si trova.È come se la coscienza oscillasse lungo una scala: a seconda di dove essa si trova si avrà una determinata percezione degli eventi psichici. Se si comporta in maniera unilaterale, non tenendo conto dell’ombra, si potranno avere situazioni nelle quali prevale l’aspetto istintuale o quello spirituale. Una coscienza poco sviluppata, ad esempio, può venire impressionata prevalentemente da proiezioni massicce di cose e condizioni concrete o apparentemente tali, ed identificherà gli istinti come il nucleo dal quale si origina la realtà. Quindi non terrà conto degli aspetti spirituali e filosofici in ombra,considerando l’istinto come la realtà essenziale dei processi psichici.Al contrario, una coscienza che si trova in opposizione con gli istinti, in cuigli archetipi manifestano un’influenza eccesiva, può sussumere gli istinti allo spirito e da eventi indubitabilmente biologici potranno emergere complicazioni ‘spirituali’ addirittura grottesche, o fanatismi. Jung conclude che la soluzione per far fronte all’unilateralità della coscienza, espressa nei due esempi limite, è nella realizzazione dell’ombra[170].
È la coscienza, dunque, che permette l’adattamento. “La sintesi di contenuti coscienti e inconsci e il rendere coscienti effetti archetipici sui contenuti della coscienza rappresenta il risultato più alto degli sforzi psichici e della concentrazione di forze psichiche, quando viene compiuta consapevolmente”[171]. Può capitare che fino ad un certo livello, quello che James chiama bursting point, il processo avvenga inconsciamente finché l’io non si trova a dover assimilare i contenuti del complesso che inevitabilmente lo invade, come ad esempio nel caso della conversione di S.Paolo o della visione della Trinità di Niklaus von Flüe[172].
Va ribadito, però, che esiste una differenza tra l’archetipo in sé e la sua rappresentazione, la quale assume configurazioni di vario tipo, ‘particolari’, per così dire, il cui senso ‘generale’ lo si può afferrare soltanto approssimativamente. Scrive Jung:
“La nostra coscienza individuale è una sovrastruttura sull’inconscio collettivo, della cui esistenza l’inconscio individuale normalmente non sa nulla. Soltanto occasionalmente l’inconscio collettivo influenza i nostri sogni … Questi sogni hanno importanza enorme per l’equilibrio psichico dell’individuo … anche se non vengono mai completamente compresi”[173].
Dunque, è tramite l’immagine archetipica che l’archetipo entra in contatto con la sfera della coscienza, mentre l’archetipo in sé non appartiene al territorio psichico ma è un fattore psicoide, poiché slegato dall’area d’influenza della coscienza.
È psicoide, lo abbiamo visto, anche l’istinto puro, che diventa psichico nel rapportarsi con la coscienza, può essere parzialmente addomesticato ed esprimersi così in azioni volontarie, pur mantenendo intatto il suo nucleo originario[174].
Ed è attraverso la metafora dello spettro di luce[175] che Jung cerca di rappresentare i poli tra i quali scorre l’energia psichica ed il rapporto che c’è tra archetipo, istinto e coscienza.
Jung scrive che a prima vista inconscio e coscienza sembrano agire in maniera analoga (con percezioni, pensieri, sentimenti, volontà, intenzioni, come se fosse presente un soggetto), ma in realtà non è così. I contenuti inconsci, i complessi a tonalità affettiva, si presentano nella loro forma originaria perché non possono essere corretti e, all’aumentare della dissociazione di un complesso rispetto al complesso dell’io, sembrano precipitare a un livello arcaico-mitologico, accostandosi così alla forma istintuale che ne è alla base, assumendo le caratteristiche distintive dell’impulso: automatismo, ininfluensabilità, all-or-none-reaction… Si può parlare, quindi, ricorrendoall’analogia dello spettro della luce, dell’abbassamento[176] dei contenuti inconsci verso la banda rossa, verso il rosso, non a caso il colore del sangue, della sfera emotiva, istintuale[177].
Tramite l’immaginazione attiva per Jung è possibile scoprire l’archetipo, inteso come rappresentazione dell’istinto, non attraverso uno sprofondamento nella sfera istintuale, che corrisponderebbe ad un abbassamento del livello di coscienza, ma,
“Esprimendoci in termini di analogia con lo spettro visibile, …l’immagine istintuale si scopre non sulla banda rossa ma sulla banda viola della scala dei colori. La dinamica degli istinti è localizzata per così dire nella parte infrarossa, mentre l’immagine istintuale si trova nella parte ultravioletta”[178].
Jung afferma che tradizionalmente il colore rosso, colore ‘caldo’, è usato per i contenuti del sentimento e dell’emozione mentre il blu, colore dell’aria e del cielo, lo è per i contenuti spirituali[179]. Ma è il viola, il colore “mistico”, che caratterizza “con più precisione” l’archetipo perché esso non è soltanto una immagine in sé (che corrisponderebbe al colore blu) ma anche una dýnamis “che si manifesta nella numinosità, nella forza fascinatrice dell’immagine archetipica”[180]. L’assimilazione dell’istinto alla coscienza non si può realizzare nell’estremità rossa, ma in quella viola in cui vi è l’immagine archetipica che evoca al tempo stesso anche l’istinto in una forma diversa da quella biologica. Dunque, l’istinto sembra avere due aspetti,
“da un lato viene vissuto come dinamica fisiologica, dall’altro le sue molteplici forme entrano come immagini e nessi d’immagini nella coscienza e dispiegano effetti numinosi”[181]. “Il precipitare nella sfera istintuale non porta quindi alla realizzazione e all’assimilazione cosciente dell’istinto, perché la coscienza si difende addirittura con panico all’idea di essere ingoiata dalla primitività e dall’incoscienza della sfera istintuale. Questa paura anzi è l’oggetto esterno del mito dell’eroe e il motivo di innumerevoli tabù. Quanto più ci si accosta al mondo degli istinti, tanto più è intensa l’urgenza di liberarsene e di salvare la luce della coscienza dall’oscurità di abissi infuocati. L’archetipo però, in quanto immagine dell’istinto, è psicologicamente un fine spirituale verso il quale preme la natura dell’uomo; il mare verso il quale tutti i fiumi dirigono il loro corso tortuoso; il premio che l’eroe strappa lottando col drago. Poiché l’archetipo è un principio formale della forza istintuale, contiene nel suo blu il rosso, ossia appare viola; oppure potremmo interpretare la metafora come apocatastasi – “ritorno allo stato originario”, “reintegrazione” – dell’istinto sul piano del numero superiore di oscillazioni, così come sarebbe possibile far discendere l’istinto da un archetipo latente (cioè trascendente) che si manifesta nell’ambito di una lunghezza d’onda maggiore”[182].
Gli alchimisti cercano di esprimere questo mistero naturale con l’urobóros, il serpente che si morde la coda, che forse più di ogni altro esprime l’affinità interna dell’archetipo con il suo contrario, l’istinto[183].
“Come l’’infrarosso psichico’, ossia la psiche istintuale biologica, trapassa a poco a poco nei processi fisiologici vitali e quindi nel sistema di condizioni chimiche e fisiche, l’’ultravioletto psichico’, ossia l’archetipo, rappresenta un settore che da un lato non mostra nessuna delle caratteristiche proprie di ciò che è fisiologico, ma d’altra parte e in ultima analisi non può neppure più essere chiamato psichico, benché si manifesti psichicamente”[184].
In questo lavoro Jung lo chiama spirito[185]. E continua:
“In tal modo la posizione dell’archetipo sarebbe definita al di là della sfera psichica, analogamente alla posizione dell’istinto fisiologico che è direttamente radicato nell’organismo materiale e rappresenta, con la sua natura psicoide, il ponte verso la materia in generale. Nella rappresentazione archetipica e nella sensazione istintuale spirito e materia si fronteggiano l’un l’altra sul terreno psichico. Materia e spirito appaiono nella sfera psichica proprietà caratterizzanti di contenuti consci. Entrambi sono, stando alla loro natura ultima, trascendentali, cioè irrappresentabili, perché la psiche e i suoi contenuti costituiscono l’unica realtà che ci sia data direttamente”[186].
Dunque, scrive Jung, “L’unica realtà immediata è quella psichica dei contenuti della coscienza, che portano per così dire l’etichetta di un’origine spirituale e materiale”[187]. Materia e spirito, istinto e archetipo, possono essere soltanto intuiti tramite le loro epifanie coscienti.
Ma aggiunge:
“Se si ipotizza la presenza di due o più realtà irrappresentabili, si dà così … anche la possibilità che si tratti non di due o più fattori, ma di ‘uno’ solo”[188].
Anche gli alchimisti affermavano che “Spirito e corpo, da un certo punto di vista, sono due cose, ma da un altro punto di vista, sono una cosa sola. Capita che gli alchimisti parlino dello spirito come di ‘luce in fusione’ e del corpo come di ‘luce solidificata’”[189]. Quindi, dall’ipotesi di una sorta di parallelismo materia – spirito e, potremmo aggiungere, istinto – archetipo, si può approdare al concetto più radicale di unus mundus[190], caro a Jung, che spiegherebbe anche quello di sincronicità[191].
L’unus mundus, afferma la Von Franz, è un concetto teologico medievale secondo il quale Dio, da buon architetto, prima di creare il mondo, ne avrebbe elaborato il modello[192]. Esso
“coincide con l’esperienza di eventi sincronistici. Gli eventi sincronistici lasciano trapelare che le costellazioni archetipiche dell’inconscio collettivo di un essere umano possono anche manifestarsi negli eventi cosmici esterni … il che collima con quel che Jung aveva da tempo compreso, vale a dire che psiche e materia, in realtà, sono due aspetti di un unico fenomeno vivente, che, osservato all’esterno in modo estroverso e con metodi estroversi, dà risultati osservati dai fisici, ma che, osservato soggettivamente, rivela – una determinata – fenomenologia”[193].
Si potrebbe affermare, quindi, che gli opposti (psiche e materia, spirito e corpo, archetipo e istinto), osservati dal punto di vista dell’unus mundus, costituirebbero un’unità. Afferma Jung, superando l’unilateralità delle concezioni materialistica e spiritualistica:
“È … in accordo con l’esperienza l’ipotesi che la materia vivente presenti un aspetto psichico e viceversa, la psiche un aspetto fisico. … l’Essere si fonderebbe su un sostrato finora sconosciuto, che possiede natura materiale e al tempo stesso psichica. Tenuto conto delle concezioni della fisica moderna, è possibile che questa ipotesi incontri minori resistenze che in passato. Con ciò verrebbe anche a dissolversi l’ardua ipotesi del parallelismo psicofisico, e si potrebbe costruire un nuovo modello del mondo che si accosti all’idea dell’unus mundus”[194].
Naturalmente Jung è consapevole di avere a che fare, parlando di unus mundus, di un concetto metafisico. Egli, infatti, riferendosi ad una immagine simbolica che in maniera evidente esprime l’idea dell’unità, scrive:
“Se il simbolismo del mandala rappresenta l’equivalente psicologico dell’idea metafisica dell’unus mundus, la sincronicità ne costituisce quello parapsicologico. I fenomeni sincronistici si verificano nel tempo e nello spazio, ma mostrano una notevole indipendenza da queste due indispensabili determinanti dell’esistenza fisica e dunque non sono conformi alla legge di causalità. Il causalismo insito nella nostra visione scientifica del mondo dissolve tutte le cose in processi individuali, che esso cerca accuratamente di isolare da altri processi paralleli. Questa tendenza è assolutamente necessaria se vogliamo pervenire a una conoscenza precisa del mondo, ma dal punto di vista filosofico presenta lo svantaggio di allentare o di oscurare l’interdipendenza universale degli eventi, fatto che ostacola in maniera crescente la conoscenza delle grandi connessioni, vale a dire dell’unità del mondo. Tutto ciò che succede, invece, avviene nel medesimo e unico mondo e ne fa parte. Per questo gli eventi devono possedere a priori un aspetto di unità, sebbene sia difficile stabilirlo mediante il metodo statistico”[195].
Dunque, il principio di sincronicità “rimanda a un’interrelazione di eventi che non presentano un rapporto causale, e postula un aspetto unitario dell’essere, che si può ben definire come l’unus mundus”[196]. Quindi potremmo dire, utilizzando una terminologia junghiana mutuata dalla filosofia, coincidentia oppositorum tra psiche e materia, spirito e corpo, archetipo e istinto, ed anche tra microcosmo e macrocosmo[197].
Tornando al nostro discorso, abbiamo visto che lo stesso Jung ipotizza che dietro ogni istinto ci sia un archetipo latente. Noi li percepiamo attraverso le epifanie coscienti e, secondo la metafora dello spettro della luce, in certi momenti ci troviamo più vicini all’estremità infrarossa mentre in altri a quella ultravioletta, a seconda che prevalga la sfera istintuale o quella spirituale, che vi sia influenza maggiore da parte dell’istinto o dell’archetipo. Alla luce di quanto detto fin’ora, istinto ed archetipo, che noi nella nostra esperienza pratica e nei nostri tentativi di comprendere la psiche trattiamo come se fossero separati, assumono un carattere unitario. Ed i concetti di sincronicità e di unus mundus che Jung, in una lettera del 1958, ribadisce che a ragione possono sembrare mitologia, poiché non sono dimostrabili scientificamente, rappresentano tuttavia una possibilità di sintesi. Una possibilità che, come direbbe Hillman, può essere guardata “in trasparenza”, come un modello interessante per osservare la realtà.
Dunque, tenendo sempre presente che siamo nella sfera delle possibilità, che i concetti appena illustrati rappresentano soltanto un ‘punto di vista’, si può concludere con Jung il quale, nella lettera del 1958, cita gli alchimisti medievali che stabilivano “l’unità della natura umana partendo dal principio ‘unus est lapis’, considerando la sintesi della pietra in armonia con quella degli elementi umani e di conseguenza facendo coincidere il vir unus con l’unus mundus”[198].
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[1] La Jacobi, riferendosi all’elaborazione Junghiana del concetto di archetipo, spiega che tale varietà di definizioni mette in evidenza la grande flessibilità del pensiero di Jung, il quale era sempre disponibile a correggere o a sviluppare le sue idee. Si possono così individuare, ad esempio, diversi momenti che lo hanno portato ad elaborazioni differenti e più dettagliate del concetto di archetipo (cfr. jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971,p. 59). Anche Hillman scrive: “Gli archetipi, in termini semantici, sono metafore. Essi possiedono una doppia esistenza che Jung ha presentato in vari modi: (1) sono pieni di opposizioni interne, di poli positivi e insieme negativi; (2) sono inconoscibili e insieme sono noti attraverso le immagini; (3) sono istinto e insieme spirito; (4) sono congeniti e, tuttavia, sono ereditati; (5) sono strutture puramente formali e insieme contenuti; (6) sono psichici e insieme extrapsichici (psicoidi)” (hillman, j., 1975, Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano, 1992, p. 270). Egli però aggiunge:“Questi accoppiamenti e molti altri simili a essi che troviamo nella descrizione degli archetipi non devono essere risolti filosoficamente o empiricamente, e neppure semanticamente. Essi appartengono all’interna auto-contraddizione e duplicità delle metafore del mito, sicché ogni enunciato riguardante gli archetipi deve essere preso metaforicamente, deve essere fatto precedere dal prefisso ‘come se’” (idem). Cita Jung che scrive: “Ogni interpretazione rimane necessariamente un come se” (jung, c. g. in idem). “I principi basilari, le archai, dell’inconscio sono indescrivibili a causa della loro ricchezza di riferimenti… L’intelletto discriminante, com’è naturale, si sforza costantemente di stabilire la loro unicità di significato e non coglie perciò il punto essenziale; perché ciò che possiamo stabilire sopra ogni altra cosa essere l’unico tratto coerente con la loro natura è il loro molteplice significato, la loro quasi illimitata ricchezza di riferimenti, che rendono impossibile qualsiasi formulazione unilaterale” (jung, c. g. in idem).
[2] Negli anni trenta Jung cominciò a chiamare la sua, psicologia complessa. Toni Wolf affermava che egli parlasse di psicologia analitica riferendosi al lavoro clinico, di psicologia complessa se si esprimeva in ambito teorico. Negli anni quaranta Jung diceva di definirla così poiché la materia della quale si occupava non era possibile scomporla in elementi semplici (antiriduzionismo di Jung). Scriveva, oltretutto, che il dare delle definizioni fosse la migliore possibilità per l’oggetto per essere qualcos’altro!
[3] jung, c. g., 1928a, Psicologia analitica ed educazione in Lo sviluppo della personalità, Opere, vol. 17, Boringhieri, Torino, 1979, p. 91.
[4] mercurio r., 2002, Shoshin. La mente del principiante in a.a.v.v., Agathodaimon Saggi di psicologia analitica, Vivarium, Milano, p. 214.
[5] cfr. shamdasani s., Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, p. 232.
[6] nietzsche f., 1888, L’anticristo, Adelphi, Milano, 1986, sez. 14.
[7] nietzsche f., 1881, Aurora, Adelphi, Milano, 1996, § 109.
[8] nietzsche f., 1886, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano, 2002, § 109.
[9] shamdasani s., Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, p. 238.
[10]james w., 1890, Principi di psicologia, Società Editrice Libraria, Milano, 1909, vol. II, p. 383.
[11] cfr. ibidem, pp. 383sgg.
[12] cfr. shamdasani s., Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, p. 236.
[13] Jung vi si riferì esplicitamente nel 1912 in un elenco di autori che avevano riconosciuto l’importanza degli istinti (cfr. jung, c. g., 1912/52, Simboli della trasformazione, Opere,vol. 5, Boringhieri, Torino, 1970, nota p. 135).
[14] cfr. shamdasani s., Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, pp. 236-7.
[15] cfr. ibidem, p. 237.
[16] bergson h., 1907, L’evoluzione creatrice, Cortina, Milano, 2002,p. 252.
[17] jung, c. g., 1937, Determinanti psicologiche del comportamento umano, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 133.
[18]cfr. idem.
[19] jung, c. g., 1932, I rapporti della psicoterapia con la cura d’anime, in Psicologia e religione, Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino, 1979, p. 312.
[20] ibidem, p. 313.
[21] jung, c. g., 1937, Determinanti psicologiche del comportamento umano, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 133.
[22] cfr. ibidem, pp. 133-4.
[23] ibidem, p. 134.
[24] jung, c. g., 1932, I rapporti della psicoterapia con la cura d’anime, in Psicologia e religione, Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino, 1979, p. 313.
[25] in ibidem, p. 523.
[26] cfr. freud, s., 1915, Metapsicologia, in Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 1915-1917, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, pp. 49-56; cfr. laplanche j., pontalis j.-b., 1967, Enciclopedia della psicoanalisi, Editori Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 113, 246.
[27] cfr. jung, c. g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 199
[28] jung, c. g., 1919, Istinto e inconscio, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 151.
[29] ibidem, p. 153.
[30] cfr. jung, c. g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 199.
[31] cfr. ibidem, nota 36.
[32] cfr. ibidem, p. 199.
[33] cfr. jung, c. g., 1919, Istinto e inconscio, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, pp. 151-3.
[34] janet p. in jung, c. g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 200.
[35] ibidem, p. 200.
[36] cfr. ibidem, p. 202.
[37] cfr. ibidem, p. 203.
[38] ibidem, p. 207.
[39] cfr. jung, c. g., 1937, Determinanti psicologiche del comportamento umano, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 134.
[40] ibidem, p. 137.
[41] cfr. ibidem, p. 134-5.
[42] ibidem, p. 135.
[43] idem.
[44] cfr. idem.
[45] cfr. zabriskie b., Preface, in jung c.g., pauli w., Atom and Archetype: The Pauli/Jung Letters, 1932/1958, Edited by C.A.Meier, Princeton University Press, 2001.
[46] cfr. jung, c. g., 1937, Determinanti psicologiche del comportamento umano, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, pp. 135-6.
[47] cfr. ibidem, p. 136.
[48] idem.
[49] ibidem, pp. 135-6.
[50] Già nel 1921 Jung aveva parlato dell’istinti di giuoco che, se genera qualcosa di duraturo e vitale, può essere definito come lavoro creativo. Scriveva: “Non l’intelletto, ma l’istinto di giuoco provvede per necessità interiore alla produzione del nuovo. Lo spirito creatore gioca con gli oggetti che ama” (jung, c. g., 1921b, Tipi Psicologici, Opere, vol. 6, Boringhieri, Torino, 1969, pp. 130-1).
[51] jung, c. g., 1937, Determinanti psicologiche del comportamento umano, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 137.
[52] cfr. jung, c. g., 1942/54, Il simbolo della trasformazione nella messa, in Psicologia e religione, Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino, 1979, p. 248 e nota 14.
[53] cfr. jung, c. g., 1919, Istinto e inconscio, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 153.
[54] cfr. jung, c. g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 199.
[55] shamdasani s., Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, p. 303.
[56] cfr. jung, c. g., 1929/57, Commento al “Segreto del fiore d’oro”, in Studi sull’alchimia, Opere, 13, Boringhieri, Torino, 1988, p. 24.
[57] jung, c. g., 1928a, Psicologia analitica ed educazione, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 81.
[58] cfr. ibidem, p. 87.
[59] ibidem, p. 83.
[60] jung, c. g., 1955/56, Mysterium Coniunctionis, Opere,vol. 14, Boringhieri, Torino, 1989, p. 422.
[61] idem.
[62] ibidem, p. 423.
[63] cfr. idem.
[64] Jung parerà, in Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, dello ‘spirito’ come opposto all’’istinto’ (cfr. capitolo 8 di questo lavoro).
[65] jung, c. g., 1946/48, Fenomenologia dello spirito nella fiaba, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 9*, Boringhieri, Torino, 1980, p. 206
[66] jung, c. g., 1919, Istinto e inconscio, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, nota p. 173.
[67] jung, c. g., 1943/48, Lo spirito mercurio, in Studi sull’alchimia, Opere, vol. 13, Boringhieri, Torino, 1988, p. 232.
[68] jung, c. g., 1952, Risposta a Giobbe, in Psicologia e religione, Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino, 1979, p. 440.
[69] cfr. idem.
[70] hillman, j., 1975, Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano, 1992, p. 409.
[71] cfr. ibidem, p. 410.
[72] idem.
[73] cfr. jung, c. g., 1938/54, Aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, in Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Opere, vol. 9*, Boringhieri, Torino, 1980, p. 80.
[74] cfr. jung, c. g., 1912/52, Simboli della trasformazione, Opere,vol. 5, Boringhieri, Torino, 1970; cfr. jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, p. 60; cfr. aurigemma in jung, c. g., 1919, Istinto e inconscio, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, nota p. 151.
[75] cfr. jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, p. 60.
[76] Jung cita Foulliée, come abbiamo visto, in relazione agli istinti (cfr. capitolo 1, nota 13, di questo lavoro), ma vi sono anche indizi che fanno pensare che la sua concezione sulle idee-forza abbia influenzato l’elaborazione del concetto di archetipo. Egli scrive nel 1929, in un congresso a Zurigo: “La terapia non consiste in una negazione e in una svalutazione dei contenuti inconsci, come nella dottrina di Freud, bensì in un assommare al conscio le forze istintive come rinforzo dell’atteggiamento individuale grazie alle idee collettive (idées-forces)” (in shamdasani, Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, p. 289). Nel 1956, in Mysterium coniunctionis, scriveva che non esistono i presupposti per affermare che le fantasie degli individui vissuti in epoche diverse scaturiscano da “idées-forces completamente diverse da quelle di adesso” (jung, 1955/56, Mysterium Coniunctionis, Opere,vol. 14, Boringhieri, Torino, 1989, p. 517). Il mito avrebbe la funzione di ponte tra “la coscienza e le attive idées-forces dell’inconascio” (ibidem, p. 383). Shamdasani suppone che l’importanza delle idee-forza di Foulliée per Jung consistesse nel loro aspetto dinamico, come costrizioni ad agire in determinati modi, anche se per Jung non erano ‘cieche’ ma legate a rappresentazioni (cfr. shamdasani, Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, p. 280).
[77] Stanley Hall (1844-1924), psicologo e pedagogista statunitense, propose l’idea di un inconscio filogenetico, ed apprezzò molto le ricerche di Jung sulla filogenesi. Egli riteneva che, come il corpo, anche l’anima portasse in sé tracce di esperienze ancestrali passate, ereditate dalla stirpe. Esse sarebbero presenti nell’inconscio che conterrebbe una registrazione delle esperienze evoluzionistiche della specie. Ad esempio la paura: vi sono paure sproporzionate rispetto alle cause… (cfr. shamdasani, Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, pp. 280, 228-9).
[78] Richard Semon (1859-1918), un teorico della memoria organica, sosteneva che ogni materia organica trattenesse tracce mnestiche che potessero tornare alla luce. Chiamò mneme la capacità ed engrammi le tracce. Jung, nel 1918, dichiarò che il concetto di psiche collettiva di Semon coincidesse con il suo e nel 1921, in Tipi psicologici, identificò l’inconscio collettivo con la mneme di Semon (cfr. ibidem, p. 279). Definì l’immagine primordiale come un “deposito mnemico, un engramma (Semon) che ha avuto origine da una condensazione di innumerevoli processi simili. È in primo luogo un deposito e perciò una tipica forma basilare di una certa esperienza sempre ricorrente dell’anima… l’immagine primordiale è quindi l’espressione psichica di una disposizione anatomicamente e fisiologicamente determinata” (jung, Tipi psicologici – prima stesura – in ibidem, pp. 279-80, nota). Tuttavia, per Jung, “la teoria degli engrammi formulata da Semon e basata sulla causalità e su criteri propri alle scienze naturali non può … bastare” (ibidem in idem).
[79] shamdasani s., Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, p. 181.
[80] cfr. jung, c. g., 1916, La struttura dell’inconscio, in Due testi di psicologia analitica, Opere, vol. 7, Boringhieri, Torino, 1983, pp. 265-266; Shamdasani fa notare che Jung lo definisce con termini utilizzati già da Ribot, filosofo e psicologo francese, nel suo La psychologie des sentiments. Jung aveva letto la sua opera, che cita in Tipi psicologici , nel 1912. Ribot distinse la memoria psicologica o conscia da quella inconscia, la prima come istanza particolare della seconda, stessa correlazione che vi è tra coscienza ed inconscio. Rifacendosi ad Haeckel, sviluppò l’ipotesi che la coscienza derivasse dall’inconscio e lo presupponesse. Inoltre ipotizzò tre livelli inconsci: il primo consisteva nell’influenza di certe modalità ereditate e fisse di sentimento in una razza, le quali, a nostra insaputa, esercitano un controllo sulle nostre associazioni (cfr. psiche ereditata collettiva di jung, c. g., 1916, La struttura dell’inconscio, in Due testi di psicologia analitica, Opere, vol. 7, Boringhieri, Torino, 1983, p. 272); il secondo raccoglieva le sensazioni dell’individuo e aveva la propria origine nella cenestesi; il terzo livello era l’inconscio personale al quale appartenevano gli stati affettivi dell’individuo, legati a percezioni o eventi precedenti della vita, che, seppur rimanessero latenti, influivano sulla vita degli individui e potevano essere riscoperti dall’analisi (cfr. shamdasani s., Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, pp. 277-8; 225-5).
[81] cfr. jung, c. g., 1916, La struttura dell’inconscio, in Due testi di psicologia analitica, Opere, vol. 7, Boringhieri, Torino, 1983, pp. 267-268.
[82] cfr. jung, c. g., 1928a,Psicologia analitica ed educazione, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 114; cfr. jung, c. g., 1934/54, Gli archetipi dell’inconscio collettivo, in Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Opere,vol. 9*, Boringhieri, Torino, 1980, p. 4.
[83] jung, c. g., 1928a,Psicologia analitica ed educazione, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 114.
[84] Nel 1937 scrive di non attribuire a se stesso la paternità né della teoria delle idee originarie preconsce né del termine archetipo[84]. “Con particolare riguardo alla psicologia troviamo questa teoria nelle opere di Adolf Bastian e poi ancora in Nietzsche. Nella letteratura francese Hubert e Maus e Lévy-Bruhl riportano idee del genere. Io non ho fatto altro che dare una base empirica alla teoria delle idee originarie o elementari, ‘catégories’ o ‘abitudes directrices de la coscience’. ecc, come si chiamavano un tempo, intraprendendo indagini particolareggiate” (jung, c. g., 1938/40, Psicologia e religione, in Psicologia e religione, Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino, 1979, p. 59). Le abitudes directrices de la coscience sono da attribuire ad Hubert e Maus[84] che facevano riferimento a categorie dell’immaginazione. Dal loro punto di vista però, che era quello della scuola di Durkheim, queste non erano ereditate biologicamente bensì costruite socialmente (cfr. shamdasani s., Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, pp. 365sgg).
[85] jung, c. g., 1946/48, Fenomenologia dello spirito nella fiaba, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 9*, Boringhieri, Torino, 1980, p. 222.
[86] Bastian parlava dei pensieri elementari come nuclei psicologici d’origine intrapsichica e universale, a differenza dei pensieri etnici, radicati nelle diverse aree geografiche. Ipotizzava uno studio sui pensieri etnici, la loro raccolta e comparazione, per giungere ad individuare i pensieri elementari. Egli scriveva: “Troveremo lo stesso nucleo di idea in tutti i luoghi e in tutte le epoche. Esistono analogie precise nei pensieri mitologici e nelle visioni del mondo sia nel feticismo del selvaggio che nell’estetica del civilizzato… in tutte queste cose, dopo aver tolto il mantello delle variazioni locali e temporali del linguaggio e dell’idioma, incontriamo lo stesso esiguo numero di nuclei psicologici” (in shamdasani s., Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, pp. 323).
[87] cfr. ibidem, pp. 312, 364.
[88] ibidem, p. 313.
[89] cfr. pieri p.f., 1998, Dizionario junghiano, Boringhieri, Torino, p. 403.
[90] jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, pp. 65-6.
[91] cfr. ibidem, p. 66.
[92] cfr. shamdasani s., Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, pp. 305-6.
[93] lorenz k., 1948, La scienza naturale dell’uomo: il manoscritto russo, Mondadori, Milano, 1995, p. 29.
[94] idem.
[95] lorenz k. in jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, p. 67.
[96] idem.
[97] evans r., 1975, Lorenz allo specchio, Armando, Roma, 1977, p. 59.
[98] cfr. shamdasani s., Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, pp. 304-5.
[99] ibidem, p. 305.
[100] cfr. jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, p. 67.
[101] idem.
[102] cfr. kellogg r., Analysing children’s art, National Press Books, Palo Alto, 1969/70.
[103] jung, c. g. in ibidem, p. 69; jung, c. g., 1936/54, Sull’archetipo, con particolare riguardo al concetto di Anima, in Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Opere,vol. 9*, Boringhieri, Torino, 1980, p. 69.
[104] jung, c. g. in idem; jung, c. g., 1943 Psicologia della meditazione orientale, in Pratica della psicoterapia, Opere, vol. 16, Boringhieri, Torino, 1981.
[105] “L’istinto forma la ‘corrente di confine’ tra la sfera corporea e quella psichica; una delle sue rive appartiene alla terra del somatico, l’altra alla terra dello psichico” (jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, p. 69, nota 38). Psiche e materia, per Jung, si trovano in uno stesso mondo, poggiano entrambe su principi trascendentali irrappresentabili. Per descrivere questo concetto, utilizza la metafora dei due coni che si toccano in un punto inesteso (cfr. jung, c. g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, pp. 232-3).
[106] cfr. jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, p. 69.
[107] jung, c. g. in ibidem, p. 70; jung, c. g., 1927/31, La struttura della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976.
[108] jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, p. 60. jung, c. g., 1948, Prefazione a E.Harding, “I misteri della donna”, in La vita simbolica, Opere, vol. 18, Boringhieri, Torino, 1979,p. 223.
[109] jung, c. g., 1906/61, Lettere, vol. III, Magi, Roma, 2006, p. 167-8; cfr. jung, c. g., 1940, Psicologia dell’archetipo del fanciullo, in Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Opere, vol. 9*, Boringhieri,Torino, 1980, p. 149.
[110] “Sincronicità significa … innanzitutto la simultaneità di un certo stato psichico con uno o più eventi esterni che paiono paralleli significativi della condizione momentaneamente soggettiva e – in certi casi – anche viceversa” (jung, c. g., 1952, La sincronicità come principio di nessi acausali, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 471); “la sincronicità rappresenta una grandezza estremamente astratta e tutt’altro che evidente. Essa attribuisce al corpo in movimento una certa qualità psicoide che, al pari di spazio, tempo e causalità, rappresenta un criterio del suo comportamento” (ibidem, p. 524).cfr. jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, pp. 82-4.
[111] cfr. jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, p. 83.
[112] cfr. von franz m.l., 1957, Lectures on Jung’s Aion, Chiron, Wilmette, Illinois, 2004.
[113] jung, c. g. in jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, p. 83; jung, c. g., 1952, La sincronicità come principio di nessi acausali, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976.
[114] cfr. jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, p. 83.
[115] jung, c. g. in idem; jung, c. g., 1952, La sincronicità come principio di nessi acausali, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 252.
[116] cfr. jung c.g., pauli w., Atom and Archetype: The Pauli/Jung Letters, 1932/1958, Edited by C.A.Meier, Princeton University Press, 2001.
[117] jung, c. g. in jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, p. 84; jung, c. g., 1952, La sincronicità come principio di nessi acausali, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 252.
[118] jung, c. g., 1932, Lettere, vol. I, Magi, Roma, 2006, p. 124.
[119] cfr. shamdasani s., Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, p. 282.
[120] cfr. knox j., 2003, Archetipo, attaccamento, analisi La psicologia junghiana e la mente emergente, Magi, Roma, 2007, pp. 53-5.
[121] jung, c. g., 1919, Istinto e inconscio, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 155.
[122] jung, c. g., 1921a, Tipi Psicologici, Arnoldo Mondadori, Milano, 1993, p. 307.
[123] cfr. shamdasani s., Jung e la creazione della psicologia moderna Il sogno di una scienza, MA Gi, Roma, 2003, p. 282.
[124] cfr. ibidem, pp. 281-2.
[125] jung, c. g., 1929, Il significato della costituzione e dell’eredità in psicologia, in Lo sviluppo della personalità, Opere, vol. 17, Boringhieri, Torino, 1979, p. 129.
[126] jung, c. g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 230.
[127] ibidem, p. 231.
[128] cfr. jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, pp. 60-1
[129] jung, c. g., 1940, Psicologia dell’archetipo del fanciullo, in Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Opere, vol. 9*, Boringhieri,Torino, 1980, p. 173.
[130] cfr. aurigemma l.in jung, c. g., 1919, Istinto e inconscio, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976,p. 151, nota.
[131] cfr. jung, c. g., 1938/54, Aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, in Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Opere, vol. 9*, Boringhieri, Torino, 1980, p. 83.
[132] in jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, , Boringhieri, Torino, 1971, p. 72.
[133] in idem.
[134] in idem.
[135] Scrive Jung: “L’archetipo è pura natura incontaminata, ed è la natura che spinge l’uomo a pronunciare parole e a compiere atti del cui senso non è consapevole, al punto che non ci pensa neppure” (jung, c. g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 227). “Gli archetipi compaiono solo nel corso dell’osservazione e nell’esperienza come ‘ordinatori’ di rappresentazioni, e ogni volta in maniera inconscia, ragion per cui non possono mai essere riconosciuti se non a posteriori. Essi assimilano materiale rappresentativo che non si può negare venga dal mondo fenomenico, e in tal modo diventano manifesti e ‘psichici’” (ibidem, p. 247). “Gli archetipi sono forme tipiche di comportamento che, quando diventano consce, appaiono come rappresentazioni. Poiché si tratta di ‘modi’ caratteristicamente umani, non c’è da stupire se possiamo costatare nell’individuo forme psichiche che si presentano non solo agli antipodi, ma anche in altre epoche distanti da noi millenni e alle quali ci lega soltanto l’archeologia” (ibidem, p. 244).
[136] jung, c. g., 1948, Prefazione a E.Harding, “I misteri della donna”, in La vita simbolica, Opere, vol. 18, Boringhieri, Torino, 1979,p. 223.
[137] La parola numinosità derivava da ” numinosum “, così definito da Jung: “Un’ essenza, o energia dinamica non originata da alcun atto arbitrario della volontà. Al contrario, questa energia afferra e domina il soggetto umano, che ne è sempre la vittima piuttosto che il creatore. Il numinosum, qualunque ne sia la causa, è una condizione del soggetto indipendente dalla sua volontà” (jung, c. g., 1938/40, Psicologia e religione, in Psicologia e religione, Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino, 1979, p. 17). Anche R. Otto aveva parlato del numinosum ” in tal senso. Scrive Pieri: “Dal latino numinosum, il termine indica il carattere dell’alterità, che in quanto tale sta alla base della possibile esperienza dell’alterità stessa. Con questa parola Otto denota la coscienza che è a fondamento dell’esperienza del sacro …, e quindi la costituzione di un mysterium tremendum che ispira venerazione e timore. Il termine ricorre nella psicologia analitica come sinonimo di fascino sum, per indicare il carattere con cui una cosa il cui senso è ignoto o non ancora noto, si trasforma in una forza che affascina la coscienza del soggetto … In questo senso, rientra talora nel numinoso l’esperienza che la coscienza fa di quell’altro da sé che è l’inconscio” (pieri p.f., 1998, Dizionario junghiano, Boringhieri, Torino, p. 482).
[138] jung, c. g., 1938/40, Psicologia e religione, in Psicologia e religione, Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino, 1979, p. 17.
[139] cfr. otto r., 1917, Il sacro, Feltrinelli, Milano, 1984.
[140] jung, c. g., 1938/40, Psicologia e religione, in Psicologia e religione, Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino, 1979, p. 17.
[141] cfr.jung, c. g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 213.
[142] cfr.jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, , Boringhieri, Torino, 1971, p. 60.
[143] jung, c. g., 1940, Psicologia dell’archetipo del fanciullo, in Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Opere, vol. 9*, Boringhieri,Torino, 1980, p. 150.
[144] idem.
[145] jung, c. g., 1958, Lettere, vol. III, Magi, Roma, 2006, p. 164.
[146] cfr. jung, c.g., 1929, Il significato della costituzione e dell’eredità in psicologia in Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Opere, vol. 9*, Boringhieri,Torino, 1980, p. 110.
[147] cfr. ibidem, p. 117; cfr. jung, c.g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche in ibidem, p. 208.
[148] cfr. jung, c.g., 1934, Considerazioni generali sulla teoria dei complessi in ibidem, pp. 119-121.
[149] cfr. jung, c. g., 1928a, Psicologia analitica ed educazione, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, pp. 107-8.
[150] cfr. ibidem, p. 113.
[151] cfr. jung, c. g., 1928c, Energetica psichica, in ibidem, p. 18.
[152] cfr. dieckmann h., 1996/99, Complexes, Kiron, Wilmette, Illinois, p. 44.
[153] Scrive Jung: “Nell’inconscio stanno pronti contenuti relativamente accentuati, cioè complessi di reminiscenze del passato individuale, soprattutto il complesso dei genitori che è identico con il complesso dell’infanzia in generale. … mediante l’immersione della libido nell’inconscio viene riattivato il complesso dell’infanzia, ragion per cui si rianimano le reminiscenze di quel periodo e soprattutto i rapporti con i genitori. Le fantasie risultanti da questa riattivazione danno luogo alla formazione delle divinità paterne e materne, come pure al risveglio di rapporti religiosi di figliolanza con Dio e di corrispondenti sentimenti improntati a devozione filiale. È significativo che si tratti di simboli dei genitori che si fanno coscienti e non già sempre delle immagini dei genitori concreti…” (jung, c. g., 1921b, Tipi Psicologici, Opere, vol. 6, Boringhieri, Torino, 1969, pp. 131-2). E ancora: “È noto che non esiste né può esistere un’esperienza umana se non c’è una preparazione soggettiva … una struttura psichica innata, la quale permette all’uomo di fare quella data esperienza. … tutto l’essere dell’uomo presuppone la donna, corporalemente e spiritualmente. … La forma del mondo in cui è nato è già congenita in lui come immagine virtuale. E così i genitori, la donna, i bambini, la nascita e la morte sono in lui congeniti come immagini virtuali, come disposizioni psichiche. Queste categorie a priori … sono di natura collettiva… Esse acquistano contenuto, influenza e infine coscienza solamente quando s’imbattono in fatti empirici i quali toccano e traducono in atto la preparazione inconscia. In un certo modo, esse sono il sedimento di tutte le esperienze della serie degli antenati, ma non sono queste esperienze stesse” (jung, c. g., 1928b, L’Io e l’inconscio, in Due testi di psicologia analitica, Opere, vol. 7, Boringhieri, Torino, 1983, pp. 188-9).
[154] jacobi j., 1957, Complesso archetipo simbolo nella psicologia di C.G.Jung, Boringhieri, Torino, 1971, p. 40.
[155] ibidem, p. 54.
[156] jung, c. g., 1949, Lettere, vol. II, Magi, Roma, 2006, p. 134.
[157] cfr. jung, c. g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 205.Chiarisce Jung:“Nella dissociazione schizofrenica manca questo cambiamento nello stato conscio, perché i complessi vengono accolti non in una coscienza completa ma in una coscienza frammentaria. Perciò essi compaiono così spesso nel loro stato originario cioè arcaico” (ibidem, pp. 205-6, n.44).
[158] ibidem, p. 205.
[159] cfr. whitmont e.c., La ricerca simbolica. Concetti di base della psicologia analitica, Astrolabio Ubaldini, Roma, 1982, p. 105.
[160] cfr. idem.
[161] hillman, j., 1975, Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano, 1992, pp. 270-1.
[162] ibidem, p. 188.
[163] idem.
[164] “L’intuizione si basa su un processo inconscio in quanto il suo risultato è un emergere, un’irruzione di un contenuto inconscio nella coscienza”. Pur ammettendo che il processo intuitivo sia analogo a quello dell’istinto, Jung distingue l’intuizione dall’istinto affermando che “l’istinto è un impulso finalistico diretto a un’attività spesse volte estremamente complicata, mentre l’intuizione è la comprensione finalistica inconscia di una situazione spesso estremamente complicata” (jung, c. g., 1919, Istinto e inconscio, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976,p. 150); cfr. Bergson, capitolo 1 di questo lavoro.
[165] jung, c. g., 1919, Istinto e inconscio, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, pp. 150; 154-5.
[166] ibidem, pp. 155-6.
[167] ibidem, p. 156.
[168] cfr. jung, c. g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 222
[169] ibidem, pp. 223-4.
[170] cfr. ibidem, pp. 224-5
[171] ibidem, p. 228.
[172] cfr. idem.
[173] jung, c. g., 1928a, Psicologia analitica ed educazione, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976,p. 115.
[174] Cfr. capitolo 3 di questo lavoro.
[175] La ‘luce’ (dal latino, lux, lucis), dal punto di vista della fisica e della biologia umana, corrisponde alla porzione dello spettro elettromagnetico visibile dall’occhio umano, ed è approssimativamente compresa tra 400 e 700 nanometri di lunghezza d’onda, ovvero tra 750 e 428 THz di frequenza. Questo intervallo coincide con la regione di massima emissione da parte del sole. I limiti dello spettro visibile all’occhio umano non sono uguali per tutte le persone, ma variano soggettivamente e possono raggiungere i 730 nanometri, avvicinandosi agli infrarossi, e i 380 nanometri avvicinandosi agli ultravioletti. Le differenti lunghezze d’onda vengono interpretate dal cervello come colori, che vanno dal rosso delle lunghezze d’onda più ampie (minore frequenza), al violetto delle lunghezze d’onda più brevi (maggiore frequenza). Va sottolineato che non a tutti i colori possiamo associare una lunghezza d’onda. Esiste infatti l’errata convinzione che ci sia una relazione obiettiva tra un colore e una lunghezza d’onda. In realtà è vero che ad ogni lunghezza d’onda è associabile un colore, ma non è vero il contrario. Quei colori a cui non sono associate lunghezze d’onda sono invece generati dal meccanismo di funzionamento del nostro apparato visivo (cervello+occhio). In particolare i coni, cellule della retina responsabili della visione del colore, si differenziano in tre tipi perché sensibili a tre diverse regioni spettrali della luce. Quando, ad esempio, due diverse onde monocromatiche, appartenenti a due regioni diverse di cui prima, sollecitano contemporaneamente l’occhio, il nostro cervello interpreta la sollecitazione come un nuovo colore, “somma” dei due originari. Le frequenze immediatamente al di fuori dello spettro percettibile dall’occhio umano vengono chiamate ultravioletto (UV), per le alte frequenze, e infrarosso (IR) per le basse. Anche se gli esseri umani non possono vedere l’infrarosso, esso viene percepito dai recettori della pelle come calore. Telecamere in grado di captare i raggi infrarossi e convertirli in luce visibile, vengono chiamati visori notturni. La radiazione ultravioletta non viene percepita dagli esseri umani, se non in maniera molto indiretta, in quanto la sovraesposizione della pelle ai raggi UV causa scottature. Alcuni animali, come le api, riescono a vedere gli ultravioletti; altri invece riescono a vedere gli infrarossi.
[176] cfr. partie supérieure et inférieure d’une fonction di Janet e successive riflessioni di Jung, capitolo 3 di questo lavoro.
[177] jung, c. g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 205.
[178] ibidem,p. 228.
[179] cfr. ibidem,p. 228, nota.
[180] ibidem,p. 229.
[181] idem.
[182] ibidem,p. 230.
[183] cfr. idem.
[184] ibidem,p. 233.
[185] Il termine spirito va qui inteso nell’accezione in cui Jung lo definisce in Fenomenologia dello spirito nella fiaba, Lo spirito Mercurio e Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità. Scrive nel primo saggio: “Si indica come ‘spirito’ il principio che si oppone alla ‘materia’: sostanza o esistenza immateriale che nel suo grado più universale e più alto è chiamata ‘Dio’, e che ci rappresentiamo anche come esponente del fenomeno psichico o addirittura della vita stessa” (jung, c. g., 1946/48, Fenomenologia dello spirito nella fiaba, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 9*, Boringhieri, Torino, 1980, p. 202).
[186] jung, c. g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 230.
[187] jung, c. g., 1946/48, Fenomenologia dello spirito nella fiaba, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 9*, Boringhieri, Torino, 1980, p. 206
[188] jung, c. g., 1947/54, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 231.
[189] corbin h., 1990, in sambursky s., scholem g., corbin h., zahn d., izutsu t., Il sentimento del colore. L’esperienza cromatica come simbolo, cultura e scienza, Red, Como, pp. 113-114.
[190] Jung definisce l’unus mundus come “l’originaria unità del mondo o dell’Essere privo di differenziazione” (jung, c. g., 1955/56, Mysterium Coniunctionis, Opere,vol. 14, Boringhieri, Torino, 1989, p. 463).
[191]cfr. jung, c. g., 1952, La sincronicità come principio di nessi acausali, in La dinamica dell’inconscio, Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976, p. 525; cfr. jung, c. g., 1955/56, Mysterium Coniunctionis, Opere,vol. 14, Boringhieri, Torino, 1989, p. 465.
[192] cfr. von franz m.l., 1972, I miti di creazione, Boringhieri, Torino, 1989, p. 229.
[193] ibidem,pp. 229-30.
[194] jung, 1958, Un mito moderno: le cose che si vedono in cielo, in Dopo la catastrofe, Opere, vol. 10**, Boringhieri, Torino, 1986, p. 266-67.
[195] jung, c. g., 1955/56, Mysterium Coniunctionis, Opere,vol. 14, Boringhieri, Torino, 1989, pp. 464-5.
[196] ibidem,p. 465.
[197] cfr. jung, c. g., 1958, Lettere, vol. III, Magi, Roma, 2006, p. 166.
[198] idem.